Skip to main content

La 73esima edizione della Berlinale è ormai giunta al termine e noi siamo tornate a casa, ma non abbiamo lo stesso smesso di pensare ai tanti film che siamo riuscite a vedere in questa edizione. Di molti ve ne abbiamo già parlato, però volevamo concludere dicendovi due parole su qualche altro film che ha catturato la nostra attenzione e che ci sentiamo di consigliarvi.

“Arturo a los 30” di Martín Shanly

Martín Shanly in “Arturo a los 30” (Credits: Berlinale)

Arturo (Martín Shanly) è un trentenne in perenne stato di indecisione e confusione. A volte lo vediamo nel tentativo di prendersi cura della sorella minore Olivia (Julia Ezcurra) e dei suoi più cari amici, ma ci accorgiamo presto come in realtà riesca a malapena a badare a se stesso. Imbarazzato e disadatto, Arturo è qualcuno che sembra sempre essere nel posto sbagliato al momento sbagliato, è un uomo ormai adulto — anche se forse lui stesso non ci vuole credere — che non si adatta alle responsabilità della società di oggi.

L’azione si svolge tra il 2017 e il 2020 — i primi sintomi della pandemia sono integrati nella trama sul finale — e con l’inserimento di numerosi flashback il regista ci mostrerà un po’ di tutto: da un assurdo incidente d’auto a un viaggio a Esquel, da una serie di relazioni finite male a una festa di matrimonio per l’amica Daphne (Camila Dougall) che si concluderà in bellezza. Il tutto legato grazie alla tecnica di raccontare questi eventi come se fossero letti dal diario dello stesso protagonista, non possiamo non trovare subito riferimenti con Caro diario di Nanni Moretti, con il quale condivide la descrizione di personaggi eccentrici, la narrazione frammentaria e la capacità di farti empatizzare totalmente con queste persone che, in fondo, sono solo persone vere.

Una gag ricorrente è che la vita quotidiana di Arturo sia sempre sull’orlo di un incidente, dal più banale al più grave. Martín Shanly non aveva bisogno di tante deviazioni per arrivare a questo punto, ma questo ritratto di una saggezza adulta che non esiste è, in definitiva, toccante. Purtroppo, dopo la visione del film, il regista e le produttrici ci hanno rivelato che la pellicola, nonostante la partecipazione alla Berlinale, non ha ancora una distribuzione, neanche in Argentina (ovvero il suo Paese di origine). Quindi non sappiamo dirvi quando e se sarete in grado dei vedere questo film, ma nel frattempo vi consiglio di segnarvi il nome; fidatevi di noi.

“Passages” di Ira Sachs

Berlinale
Ben Whishaw e Franz Rogowski in “Passages” (Credits: Berlinale)

Ci troviamo a Parigi, il film inizia durante quello che capiamo essere l’ultimo giorno di riprese del nuovo film del regista tedesco Tomas (Franz Rogowski), che appare visibilmente teso e preoccupato del risultato finale del suo lavoro. Durante il wrap party, Tomas finalmente più tranquillo cade tra le braccia di suo marito Martin (Ben Whishaw), il quale però decide di andare a casa presto. Qui Tomas incontra una giovane insegnante di scuola elementare, Agathe (Adèle Exarchopoulos), e i due lasceranno insieme la festa per andare a casa di lei. La mattina dopo, Tomas racconta con orgoglio a Martin di essere andato a letto con una donna. Da qui questa avventura di una notte si trasforma in qualcosa di più e si apre una storia di relazioni passionali e dolorose al tempo stesso.

Rogowski — a nostro avviso star di questa Berlinale, data anche la sua performance in Disco Boy — non è estremamente capace nell’immedesimarsi nel carattere eccentrico del suo personaggio, ed è anche per questo che è così bravo a salvare un po’ della nostra simpatia nei confronti di Tomas, anche dopo averlo visto toccare il fondo. La naturale gentilezza di Whishaw è sfruttata in modo altrettanto avvincente nei momenti in cui Martin ricade sui suoi passi non riuscendo ad allontanarsi da Tomas, mentre la vulnerabilità non troppo delicata della Exarchopoulos permette ad Agathe di essere il bersaglio più vulnerabile di Tomas senza mai, però, diventare una vittima.

Dopo la fine del film in sala c’è stato tempo per alcune domande, una in particolare — perdonatemi se non ricordo le parole esatte — chiedeva a Franz come si fosse preparato per rappresentare un personaggio così negativo. Ben Whishaw non perde un secondo e prende la parola, spiegando come il film non volesse mettere nessuno di questi tre personaggi sono una luce negativa, aggiungendo che secondo lui le relazioni umane sono così vaste e così sfaccettate che non dovremmo mai fermarci allo strato più esterno, imponendo sulle altre persone le nostre morali personali che forse in alcuni casi potrebbero non essere applicabili così facilmente. Dopodiché i due attori sia sono abbracciati, e io mi sono trattenuta dal salire sul palco per fare lo stesso.

Sincerely yours, Giulia xx.

“Afire (Roter Himmel)” di Christian Petzold

Berlinale
“Roter Himmel” di Christian Petzold (Credits: Berlinale)

Digitanto su un qualsiasi motore di ricerca il sintagma Roter Himmel i risultati saranno, nella maggior parte dei casi, foto di un cielo rosso. Questo perchè – e lo dico per chi, come me, non sapesse il tedesco – i due termini significano “cielo rosso”. Il riferimento a questa tonalità deriva dal fatto che la cornice del film si incentra sul tema degli incendi boschivi, ma la trama principale occupa tutt’altro argomento. Non è perchè ha vinto l’Orso d’Argento che ne sto parlando adesso: credo che sia il miglior film in concorso in tutte le sezioni del Festival – ma, d’altra parte, avevamo dubbi sul fatto che Christian Petzold potesse continuare a sorprenderci? Leon (Thomas Schubert) e Felix (Langston Uibel) sono due amici di vecchia data che si ritrovano a trascorrere alcuni giorni di vacanza nella casa di villeggiatura della madre di Felix; inaspettatamente, però, scoprono che la casa è già stata occupata da Nadja (Paula Beer), la figlia di una collega della proprietaria della casa.

Berlinale
Thomas Schubert in “Roter Himmel” di Christian Petzold (Credits: Berlinale)

Se, inizialmente, regnano diffidenza e ostilità nei confronti dell’ospite inaspettato, soprattutto da parte di Leon, presto questi sentimenti lasceranno il posto a qualcosa di più intenso e che né Leon né Nadja si sarebbero aspettati di provare l’uno nei confronti dell’altra. Senza spoilerare troppo della storia – i cui dialoghi, in particolar modo, sono scritti benissimo – possiamo dire che qui Petzold diventa più Rohmer di Rohmer stesso: con una ambientazione in una casa di villeggiatura, nei pressi del mare, lunghi momenti di stasi e un personaggio protagonista che non resta così simpatico allo spettatore, riesce a proporre la sua personale rivisitazione di tutti quei Pauline à la plage (1983) e Conte d’été (1996). Benché non lo abbia mai nominato apertamente in conferenza stampa, Petzold ha dichiarato che l’idea del film gli è venuta proprio ragionando sul fatto che, in Germania, non esisteva come genere quello del “film d’estate”, cosa, invece, molto sentita in Francia (oltre a Rohmer, esempio più evidente, basti ricordare anche l’ultimo lavoro di François Ozon, Été 85).

Berlinale
Thomas Schubert e Paula Beer in “Roter Himmel” di Christian Petzold (Credits: Berlinale)

Il film si apre sulle note di una canzone magnetica e, questo, contribuisce a conferirgli quell’atmosfera sognante che il regista ha tanto cercato di raggiungere. In my mind della band viennese Wallners trasporta tutta la storia in una dimensione eterea e quasi intangibile; non dubito che, non appena uscirà su larga scala (e, ovviamente, a questo ci ha già pensato MUBI), la canzone-tema portante della colonna sonora diventerà quello che What a Life era stato per Another Round. Inno generazionale, icona, decidete voi come definirla, nel frattempo vi lascio ascoltare per poter giudicare voi stessi, in attesa del film, se basta effettivamente una canzone per creare hype intorno a questa uscita. Buon ascolto.

Sincerely yours, Virginia, xx.

4 Comments

Leave a Reply