di virginia
Durante la scorsa edizione della Berlinale, mi sono imbattuta con la mia compare in un film dal titolo Arturo a los 30, ovvero «Arturo a trent’anni», diretto da Martín Shanly, regista, sceneggiatore e attore argentino. All’interno del Festival di Berlino la pellicola è stata presentata nella sezione Forum, cioè quella che raccoglie prevalentemente film indipendenti, come segnalato dal Festival stesso, che portino avanti una riflessione sul senso di cinema. Il film, che abbiamo inserito nel nostro programma incuriosite dalla trama (ma non andrò a mentire: anche dalla bellissima grafica che costituisce la locandina) ha sorpreso tutto il pubblico della matinée proiettata allo Zoo Palast.
Il racconto di formazione vede come protagonista il personaggio di Arturo (interpretato dallo stesso Shanly) alle prese con alcune bizzarre situazioni. La trama principale, che vede il protagonista e un gruppo di amici e familiari recarsi a un matrimonio, è intervallata da alcuni flashback che rivelano alcuni dettagli del passato di Arturo. Forse definire la storia “racconto di formazione”, che oltre a essere diretta è anche sceneggiata da Shanly, non rende pienamente giustizia alla pellicola; il modo brillante in cui vengono affrontate alcune tematiche (dal rapporto con i propri familiari alle amicizie costruite nel corso degli anni) ha fatto sì che questo film ci rimanesse impresso per molto tempo dopo averlo visto. Dopo aver recuperato il resto dei suoi lavori, sono riuscita a scambiare due chiacchiere con il regista e questo ne è il resoconto.
Sei regista e attore, cosa ti ha spinto a ricoprire i panni di entrambi in “Arturo a los 30”, il tuo ultimo lavoro? «Mi piace recitare e la sfida di farlo in questo film, circondato dai miei amici, mi attirava molto. Mi sono pentito profondamente di questa decisione durante la fase di post-produzione della pellicola, ma ora che tutto si è concluso, mi rendo conto di essere contento di averlo fatto.»
Non sono solo aspetti drammatici e legati all’incertezza dell’avere trent’anni a dare corpo alla storia; la narrazione è costellata da piccoli momenti comici (e tragicomici) che, però, pur alleggerendo il tono della pellicola, facendo tirare allo spettatore un sospiro di sollievo, non banalizzano o semplificano la messinscena. Attraverso gli espedienti del flashback e delle pagine di diario – sì, vagamente reminescenti di Caro Diario di Nanni Moretti – lo spettatore ricostruisce alcuni punti salienti della vita di Arturo. La narrazione segue un flusso di coscienza o, meglio, ricalca il ripercorrere gli eventi aprendo casualmente un diario, dopo anni che le pagine sono state scritte.
Da dove viene la decisione di raccontare la storia seguendo una narrazione “frammentata” e non lineare dal punto di vista cronologico, in “Arturo a los 30”? «In un primo momento, il film aveva una struttura narrativa a episodi, all’interno della quale ogni flashback funzionava come una vignetta separata e autonoma che faceva terminare il tutto con la sequenza del matrimonio. È stato in seguito ai numerosi ritardi che abbiamo accumulato dalla produzione che ci è venuta l’idea di inserire un “giorno presente” con situazioni apparentemente arbitrarie e casuali ambientate nel passato che si insinuano nella storia. In questo modo siamo riusciti a sfruttare nel miglior modo possibile lo scorrere del tempo.»
In Juana a los 12 «Juana a dodici anni», lungometraggio d’esordio di Martin Shanly, seguiamo la storia di Juana (interpretata da Rosario Shanly), la giovane protagonista, che fatica a trovare una propria dimensione nel mondo. Juana frequenta una scuola elitaria nei pressi di Buenos Aires e il racconto osserva da vicino la sua quotidianità. Spesso si sente parlare della “cattiveria” dei bambini che, assorbendo tutto ciò che vedono e sentono intorno a loro (dal fantomatico “mondo degli adulti) e combinando questo alla mancanza di freni inibitori, riescono a ferire nel profondo i loro coetanei. La protagonista è una giovane riservata, che fatica a mantenere i suoi buoni voti a scuola e si ritrova incastrata in una serie di amicizie con cui ha pochi – se non nessuno – tratti in comune.
Ci sono molti punti di affinità con un illustre precedente: alcune situazioni che Juana vive (da una madre assente alle le difficoltà che incontra a scuola, con i professori che non si accorgono del disagio che prova la protagonista, fino ad arrivare alla scena finale in cui la protagonista corre verso il mare, anche se in sogno) ricordano quelle già vissute da Antoine Doinel, il giovane protagonista dei 400 colpi di Truffaut.
C’è o c’è mai stata l’intenzione da parte tua di portare avanti un racconto diviso in più “capitoli” – e, quindi, pellicole – che segua la crescita di uno stesso personaggio? «Non c’è stata alcuna intenzione, da parte mia. Mi sono reso conto molto tardi che i due film avevano in comune lo studio di un personaggio infieri, che maturasse nel corso della storia raccontata. Se Antoine Doinel è stato un punto di riferimento, lo è stato sicuramente in modo inconsapevole, anche per quanto riguarda la somiglianza con la sequenza finale ambientata in spiaggia, non ci avevo pensato.»
Entrambi i lungometraggi sceneggiati e diretti da Shanly, anche se incentrati su diverse fasi della vita, comunque ruotano attorno alle vicende di personaggi infieri, rientrando in quel genere definito nel mondo anglosassone come coming-of-age. Nonostante i principali lavori rientrino sotto questa etichetta, il regista, a tal proposito, afferma di voler esplorare altri generi e raccontare diversi tipi di storie.
Riusciremo a vedere presto (dita incrociate) i tuoi lavori anche qui in Europa, almeno fuori dal circuito festivaliero? «Mi piacerebbe moltissimo. Se qualcuno mi invita, sono già lì».