approfondimento a cura di virginia maciel da rocha
Lo scorso 29 agosto, nelle sale cinematografiche brasiliane ha fatto il suo ingresso Zé, ultimo lungometraggio realizzato dal regista Rafael Conde. Il film si pone sulla scia di narrazioni incentrate sul periodo della dittatura militare, forma di governo oppressiva che ha guidato il paese per venti anni, dal 1964 al 1985. Se mai capita che nei programmi scolastici si arrivi a parlare del continente sudamericano, i riferimenti sono principalmente rivolti alle dittature che hanno governato in Cile e in Argentina; per una serie di motivi – che stanno a metà tra programmi accademici disequilibrati e un forte senso di appartenenza all’Unione Europea, lasciando il Sudamerica in balia di sé stesso – non si affrontano mai realtà alternative alle forme di governo di Perón e Pinochet. Non intendo incolpare il sistema scolastico europeo e, in particolare, quello italiano, in toto, ma è evidente che un sentimento eurocentrico – derivato a sua volta da una visione coloniale difficile da lavare via – sia diffuso anche in quegli organi e istituzioni preposti a decostruire e mettere in discussione il ruolo della cultura occidentale.
La maggior parte delle persone che conosco, mie coetanee e studenti, nella stragrande maggioranza dei casi non ha idea che anche il Brasile ha vissuto una triste pagina di storia come questa. Io stessa, pur provenendo una famiglia per metà brasiliana, ho scoperto molto avanti con gli anni che cosa fosse successo in quel ventennio al Paese. Crescendo in Europa viene logico associare una dittatura a un’altra, ma mi sono trovata in difficoltà a capire di «che tipo» di dittatura si trattasse, avendo avuto a che fare solo con regimi totalitari e con un passato fascista che continua a riemergere nel Paese in cui vivo. Nonostante la tendenza comune sia di dire che quella che il Brasile ha vissuto si è configurata come una forma più lieve di dittatura, rispetto ai totalitarismi fascisti e nazisti, si tratta comunque di una forma di governo avviata con un colpo di stato militare e dai tratti fortemente oppressivi nei confronti delle più basiche libertà e diritti umani. Zé si occupa proprio di raccontare una di queste storie, una storia reale di resistenza: la lotta contro il sistema dittatoriale portata avanti dall’attivista José “Zé” Carlos Novaes da Mata Machado, studente di giurisprudenza dell’università di Minas Gerais.
Il film segue gli ultimi giorni di vita dell’attivista, il cui ruolo viene interpretato da Caio Horowicz – già su questi schermi come uno dei protagonisti dell’ultima pellicola di Vera Egito e, a questo punto, non più promessa ma vero e proprio talento del cinema contemporaneo brasiliano. Dopo una strenua azione di resistenza e di militanza contro il regime, a causa di una soffiata compiuta dal cognato, che dalla lotta contro il sistema passa a diventare un informatore, Zé e i suoi compagni di lotta vengono uno a uno catturati e interrogati, infine torturati. Lo spettatore segue la vita clandestina che il protagonista e sua moglie Madalena (Eduarda Fernandes) intraprendono per poter continuare a esercitare la loro azione di dissenso. Dopo essersi trasferiti in una zona povera e rurale del Brasile, i due si impegnano per una azione di consapevolizzazione nei confronti delle classi sociali più emarginate, organizzando discussioni e dibattiti sul ruolo che un lavoratore ha nei confronti del proprio datore, fino ad arrivare alla posizione che il cittadino ricopre nella società.
Lo spettatore è invitato a seguire le vicende entrando nelle case in cui viene pianificata la resistenza; attraverso una rete di detti e non detti, si risale alla fitta rete che collega i vari dissidenti dislocati in diverse zone del paese. La vita dei due protagonisti, piena di attese e di vuoti, di attimi sospesi, viene resa attraverso silenzi, azioni quotidiane reiterate. Gli sporadici contatti che Zé mantiene con la propria famiglia, per mezzo di missive spedite o consegnate, assumono carattere universale e diventano un monito per lo spettatore che osserva le vicende susseguirsi sullo schermo. Con lo sguardo in camera, l’appello dell’attivista si trasforma in una favola ammonitrice: per ricordare e per impedire che tutto questo si verifichi di nuovo.
Incuriosita da questa storia e abbastanza in imbarazzo per non averla conosciuta prima della visione di questo film – ma del resto, non è anche a questo che il cinema serve? – ho approfittato per scambiare due chiacchiere con il regista Rafael Conde, per sondare il suo punto di vista sulla vicenda. Qui segue quanto ci siamo detti a proposito della pellicola.
Da dove viene l’idea di raccontare questa vicenda e quale processo hai seguito insieme agli attori e al dipartimento sceneggiatura per realizzare un ritratto di figure storiche di tale portata?
«Questa storia è emersa per la prima volta circa vent’anni fa, quando mi trovavo al Festival di Rotterdam e ho presentato il progetto per sviluppare il film. Ho vinto il premio per sviluppare la sceneggiatura, ho conosciuto la storia attraverso il libro scritto dal giornalista Samarone Lima («Zé – José Carlos Novaes da Mata Machado, Uma reportagem»). Questa vicenda era già molto nota nello stato di Minas Gerais, l’assassinio di uno studente avvenuto in tempi di dittatura, figlio di un giurista, di un professore di giurisprudenza molto conosciuto in Brasile. Ho deciso di raccontare questa storia anche perchè ero parte del movimento studentesco aperto alla politica, sono stato studente e alla fine sono diventato professore nell’università di Minas, quindi ho seguito da vicino questa agitazione e preoccupazione studentesca».
Lo scorso anno abbiamo visto il film di Vera Egito, incentrato sugli scontri della via Maria Antônia; da poco «Zé» è uscito nelle sale brasiliane mentre qui a Venezia, poche settimane fa, è stato presentato l’ultimo lungometraggio di Walter Salles. Tutti questi film si incentrano su figure e comunità che hanno avuto un ruolo fondamentale durante la resistenza; secondo te a cosa è dovuta una concentrazione del genere sul tema della dittatura?
«Il tema della dittatura emerge e ritorna nel corso del tempo, in diverse forme. È apparso in una maniera più tagliente e forte soprattutto negli anni Ottanta, quando si è verificata una prima apertura politica ma si ripresenta spesso perchè la democrazia si trova sempre in uno stato di minaccia. Ci ritroviamo a pensare che il pericolo della dittatura sia ormai passato e finito, ma non è un caso che anche i film tornino a parlare di politica in questi termini. Lo stesso Presidente della repubblica, in Brasile, è arrivato a negare quel periodo storico e la sua esistenza, come la propagazione delle torture. È importante ricordare e fare in modo che questa storia venga raccontata e mai dimenticata; le nuove generazioni devono avere idea di che cosa significhi vivere in uno stato dittatoriale, sotto pressione».
In Europa, a causa della lontanza geografica – ma, soprattutto, a causa di un forte sentimento eurocentrico – gli eventi che il continente sudamericano ha affrontato durante lo scorso secolo non sono molto conosciuti, nonostante si siano conclusi relativamente da poco. Ci sono stati casi di grandi dittature, come è noto, e oggi in Italia si ha un clima di ritorno al fascismo, con tanto di misure approvate dal governo che minano la libertà di espressione. Quale funzione può avere il cinema per combattere un clima simile e rendere consapevole lo spettatore su questioni del genere?
«Certo, come hai notato, questa situazione, questo ritorno al fascismo, questa volontà di annullare una storia di guerra, di un assassinio politico si sta diffondendo in molte parti del mondo. La minaccia di un ritorno dell’estrema destra si sta concretizzando sempre di più; attraverso i film bisogna ricordare che tanto nella dittatura brasiliana quanto nei movimenti più recenti europei, i giovani, la comunità studentesca, hanno una presenza molto forte e concreta nella difesa dei diritti della libertà. La censura, in un regime fascista, e le arti, sono i primi elementi a essere colpiti in un regime fascista ma il cinema ci fornisce uno strumento utile per reagire e difenderci da un possibile scenario cupo come questo».