a cura di costanza rossi
Christian Petzold è un nome che potrebbe dirvi poco – è infatti un regista che non ha ancora trovato il riconoscimento che gli spetta nel panorama del cinema internazionale. Nondimeno, la sua filmografia continua a crescere e arricchirsi di piccoli capolavori, come nel caso del suo film più recente, Il cielo brucia (2023). Il film, vincitore dell’Orso d’argento alla Berlinale nel 2023, ha trovato un buon riscontro di critica, ma è rimasto nel circuito dei festival indipendenti (andando al festival del cinema di Tribeca, per esempio), senza larga distribuzione nelle sale. Ad eccezione forse di Undine (2020), il lavoro di questo regista tedesco non è molto conosciuto al di fuori di una ristretta cerchia di cinefili. Se si trattasse di un giovane regista emergente, la questione non solleverebbe tanto stupore, ma il fatto è che ormai Christian Petzold ha diretto più di una quindicina di titoli, tra cui Phoenix (2014) e Transit (2018), che si stenta a credere siano stati archiviati senza troppo rumore.
I primi film del regista sono per lo più cortometraggi sperimentali e film noir, a cui segue una trilogia chiamata ‘dei fantasmi’ (‘gespenster’), in cui Petzold esplora la Germania della fine del ventesimo secolo e si ritaglia un posto all’interno della Berliner Schule. La Berliner Schule è una corrente del cinema tedesco identificata dalla critica francese nel circuito dei festival internazionali all’inizio degli anni 2000. Il movimento trova la sua coesione non tanto in un progetto condiviso, quanto nella comune ricerca, identificata dai critici, di storie che problematizzino l’identità sociale e culturale tedesca. I registi che ne fanno parte sono quasi tutti ex studenti della Dffb (Deutsche Film und Fernsehakademie Berlin), come nel caso di Thomas Arslan, Angela Schanelec e lo stesso Petzold. Negli anni, anche grazie alla collaborazione con Harun Farocki (critico e teorico del cinema d’avanguardia tedesco), Petzold è diventato non solo l’esponente più prolifico della Berliner Schule, ma anche quello più noto.
Una caratteristica ricorrente del cinema di questo regista è che i suoi lavori si aggregano tra loro a gruppi di tre, in nuclei tematici che riflettono ed espandono un certo numero di direttive, per poi evolvere in una di queste direzioni più nel dettaglio. La sua prima trilogia, composta da The state I am in (2000), Ghosts (2005) e Yella (2007), indaga i fantasmi dei protagonisti intorno a un senso di inevitabile crisi. I personaggi di queste tre storie sono sempre in movimento, circondati da una violenza sottesa che costruisce un costante senso di pericolo. Questa minaccia, prima solo percepita, si evolve nella trilogia seguente in un pericolo tangibile. La ricerca dell’autore si espande con Barbara (2012), Phoenix (2014) e Transit (2018). Tutti e tre i film sono thriller, che si appoggiano sulla tensione di momenti cruciali della storia nazionale tedesca: gli anni ottanta dei dissidenti della Germania dell’est (Barbara) e il dopoguerra dei superstiti dei campi di concentramento (Phoenix). Il cinema permette a Petzold di restituire un sensazione di forte tensione attraverso lo stile dei thriller, perfezionando una regia essenziale che plasma la storia tedesca fino a riuscire a estrapolarla del suo contesto (Transit), con un risultato dai toni distopici. Con l’ultimo film della trilogia, infatti, il regista riesce a decontestualizzare le persecuzioni naziste, con una storia ambientata a Marsiglia ai giorni nostri, che racconta di un uomo che ruba l’identità di uno scrittore per provare ad espatriare e in seguito si innamora della moglie di lui. Il film, che per l’urgenza di una via di fuga ricorda Casablanca, costruisce un pericoloso gioco tra amanti che interroga le loro identità.
In tutti i film di Christian Petzold, da Phoenix a Il cielo brucia, i protagonisti vengono consumati da un amore diffidente che mette alla prova chiunque loro pensino di essere. Quelle del regista sono storie d’amore noir, in un certo senso, in cui gli amanti non solo non sanno se fidarsi, ma soprattutto non sanno come farlo. L’aspetto più affascinante è che questa ricerca di fiducia (che per esempio in Barbara è un’attrazione tra due colleghi che non si fidano l’uno dell’altra nella Germania dell’est, mentre in Transit mette in pericolo la possibilità degli amanti di espatriare e trovare salvezza) interroga direttamente l’identità del singolo, prima di coinvolgere la dinamica di coppia. Così accade anche nel suo ultimo film, Il cielo brucia, in cui il protagonista, un giovane scrittore insopportabile, si trova a fare i conti innanzitutto con se stesso e il suo ultimo romanzo, prima che con l’attrazione che prova per Nadja. Forse il punto in Petzold è proprio il modo in cui questi due elementi si intrecciano: il modo in cui Felix deve riuscire ad ammettere la pessima qualità del suo ultimo lavoro, tanto quanto l’attrazione che prova per Nadja, e come entrambe le cose sembrino parimenti irraggiungibili, per la sua incapacità di fare un passo indietro rispetto al suo ego.
L’ultima trilogia del regista, di cui Il cielo brucia fa parte, non è stata ancora terminata, ma una delle direttive che Petzold sembra stare esplorando, in modo più lirico di quanto non abbia fatto in passato, è la passione. Sia in Undine che in Il cielo brucia, ma anche nell’ultimo film della trilogia precedente, Transit, l’amore è al centro delle vicende in modo più deciso. Se in precedenza l’amore era la premessa della storia, come in Phoenix in cui la protagonista tornava da Auschwitz e cercava di ritrovare suo marito, negli ultimi lavori è un orizzonte verso cui i protagonisti tendono. Curiosamente, in tutti e tre gli ultimi film, l’attrice Paula Beer ha interpretato la metà femminile della coppia, dando voce e corpo a donne sfuggenti. Beer è la nuova musa di Petzold, che in passato aveva avuto lo stesso tipo di rapporto con un’altra attrice tedesca, Nina Hoss. Si tratta di un altro punto importante del lavoro di questo regista, che ha lavorato più volte con gli stessi attori, per esempio con Franz Rogowski e Ronald Zehrfeld, plasmandone le identità a distanza di tempo, ma con queste due attrici ha instaurato un rapporto diverso. Nina Hoss infatti ha accompagnato il regista nella transizione dalla prima alla seconda trilogia e lo stesso ha fatto Paula Beer tra la seconda e la terza.
Il fatto di per sé non avrebbe grande importanza, se non si studiasse che tipo di rapporto Petzold punta a instaurare con queste due attrici, un rapporto che sta a metà tra l’ispirazione e la collaborazione di intenti. Se da un lato Petzold scrive le sceneggiature pensando a una persona in particolare, usandola come musa per canalizzare certi elementi, dall’altro sul set non impone mai la sua visione, dicendo agli attori cosa fare. Come spiegato da Paula Beer in un’intervista a The Next Best Picture, Petzold instaura con i suoi attori un rapporto di fiducia che lascia loro una grande autonomia per la loro parte del progetto. Partendo dal presupposto che tutti sul set hanno una loro specializzazione, il regista non pretende di spiegare agli interpreti come muoversi o cosa ‘tirare fuori’. Il suo processo di costruzione del film passa per un lungo periodo di prove in cui lui e gli attori lavorano ai personaggi e modificano anche parti della sceneggiatura. Questo approccio ha un valore diverso quando Petzold usa la stessa attrice per lungo tempo e lavora con lei per esplorare tutte possibilità di questa collaborazione tra scrittore e interprete. Si tratta di un elemento importante per la filmografia, che punta a costruire ed esplorare personaggi sempre più stratificati, ed effettivamente, per quanto la critica abbia individuato un tono più leggero nell’ultimo film rispetto ai precedenti, i personaggi de Il cielo brucia sono tutt’altro che leggeri e di facile interpretazione. Il fascino di quest’ultimo lavoro risiede proprio nella stratificazione delle dinamiche tra i quattro protagonisti, tutti stipati nella stessa casa per le vacanze.
Rimane un po’ un mistero il motivo per cui questo regista non abbia ancora trovato grande spazio nelle programmazioni delle sale, in Italia ma anche nel resto d’Europa, e di conseguenza sia per lo più sconosciuto al pubblico. Un motivo potrebbe essere che Petzold ha spesso presentato i suoi lavori in anteprima alla Berlinale, festival con una politica molto differente rispetto a Cannes o Venezia, e questo ha probabilmente contribuito a tenere un po’ nell’ombra le sue opere. I registi alla Berlinale, come nel caso di Carla Simon con Alcarràs due anni fa, per quanto degni di nota, non raggiungono mai la fama di un Ruben Östlund o una Chloé Zhao, venendo presentati su un palcoscenico diverso da quelli degli altri due maggiori festival europei. Nell’ultimo decennio, infatti, i festival di Cannes e Venezia si sono sfidati per trovare e premiare i film che a fine stagione avrebbero puntato a qualche Oscar e lo hanno fatto con successo, ospitando le prime visioni di film come La La Land (2016), Parasite (2019), Nomadland (2020), Triangle of Sadness (2022) e Anatomia di una caduta (2023). Il festival di Berlino invece si è tenuto defilato da questo gioco, senza selezionare film per un gusto di preveggenza che strizza l’occhiolino a Hollywood. Di conseguenza, pur avendo vinto diversi orsi nella sua carriera, Christian Petzold è un regista noto solo nell’ambiente del cinema indipendente europeo, ma con questo articolo spero di avervi un po’ incuriosito ad esplorarne i meravigliosi lavori.
bibliografia, per approfondire:
‘‘What Matter is Memory? Christian Petzold and His Movies’’, Jessica R Felrice, 30 Nov. 2018, [https://mubi.com/it/notebook/posts/what-matter-is-memory-christian-petzold-and-his-movies]
«Interviews with ‘‘Afire’’ Director/Writer Christian Petzold & Star Paula Beer», Next Best Picture Podcast, 2023.