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di pavel

I film intelligenti, a mio parere, richiedono più di una visione: io Tár l’ho dovuto vedere tre volte. Il primo tentativo, inutile dirlo, mi ha lasciato alquanto confuso; il secondo ha prodotto in me una sorta di fascinazione mistica; il terzo, invece, mi ha ammalato, ossessionato. Adesso Tár mi perseguita, mi appare nei passi atonali del giorno e mi trova nelle rapsodie del sonno. È come una prigione, un fantasma, una sequenza di immagini seducenti accompagnate da repertori musicali incalzanti, una serie di dissonanze inquietanti che mi eccita e mi spaventa allo stesso tempo. È onestà intellettuale ammettere di non essere lucido durante la composizione di questa scrittura? È sicuramente un invito che vi faccio, caldamente, a prendere le distanze dalle mie parole. O, perlomeno, ad ascoltarle diversamente.

“Tár” di Todd Field (Credits: Focus Features)

Sarah Schulman, autrice e attivista queer, in The gentrification of the mind afferma che il problema alla radice del pensiero conformista e conformato è che la maggior parte delle persone sono ‘average’, ossia ‘medie, comuni’; queste persone sono solite guardare qualcosa che non riconoscono come ‘familiare’ e a categorizzarla immediatamente come ‘sbagliata’: “Very few people are able to look at an authentic discovery and be grateful”, chiude. Tutto il resto del saggio è una fresca ed energizzante analisi sociologica, imbevuta di nozioni di New Historicism, su come l’incapacità di guardare la storia nelle complessità della sua evoluzione sia stata cruciale per la cecità del presente e la paura del futuro.

“Tár” di Todd Field (Credits: Focus Features)

C’è una scena in Tár dove Adam Gopnik chiede alla protagonista in cosa si differenzi la sua direzione d’orchestra rispetto al suo maestro, il famoso compositore Leonard Bernstein. Lydia Tár, questo personaggio così ricco e contraddittorio, risponde di differenziarsi nel rispetto dell’intenzione dell’autore: se ‘Lennie’ (così chiamato dalla sua allieva prodigio) credeva nella teshuvah, il potere talmudico di tornare indietro nel tempo e trasformare il significato delle azioni passate, Lydia, forte dei suoi cinque anni passati a studiare la musica delle popolazioni indigene del Perù orientale, mantiene un forte rispetto delle ragioni che si celano dietro la creazione artistica, a tal punto da non potersi permettere di fare come fece Bernstein, ossia suonare la celebre Sinfonia n. 5: composta da Mahler agli inizi del ‘900 come celebrazione del suo matrimonio con Alma Schindler, il compositore di West Side Story la suonò oltre sessant’anni dopo in occasione dei funerali di Robert Kennedy. Tár è categorica: l’Adagetto non è il frutto di una dolorosa tragedia, ma il risultato di un giovane amore, e lei sceglie l’amore. Certo, ai giorni nostri questa può suonare come un’osservazione passatista, reazionaria, un po’ come a dire che l’arte non può essere attualizzata, ricalibrata rispetto ai tempi in cui è recepita, rispetto all’audience che la riceve. Ad una prima visione devo confessare di non aver compreso totalmente cosa significasse. Mentirei se dicessi che ora ho una risposta migliore.

“Tár” di Todd Field (Credits: Focus Features)

Tár è forse l’unico film, degli ultimi vent’anni, che mi abbia fatto sentire davvero ‘average’, un beota: non è sicuramente una lusinga per il mio ego; è però un invito a far di meglio. Parlare di ciò che si ama è già difficile. Immaginate poi che la cosa che avete amato non l’avete totalmente carpita, afferrata. Ecco, io mi sono ritrovato così, a metà tra la pretesa di applicare critiche decostruzioniste al film e il sentirmi un totale imbecille perché ogni tentativo di disamina falliva a vuoto. Dunque, ho deciso di scriverne così, come un flusso non mediato, indistinto di ricezioni. Certe cose non possono essere spiegate; esistono sensazioni che il linguaggio umano non può esprimere e forse mai ci riuscirà, ed è lì che la lingua comune fa spazio ad altri tipi di linguaggio: quello musicale né è un sublime esempio.

“Tár” di Todd Field (Credits: Focus Features)

La sinossi del film ci presenta Cate Blanchett nel ruolo di una famosa, diremmo accomplished compositrice e direttrice d’orchestra, che si appresta a 1) interpretare la Quinta Sinfonia di Mahler, 2) ad ossessionarsi di una giovane violoncellista e 3) ad essere ammazzata dall’industria della cancel culture. Fin qui, a parte un teaser trailer ermetico e un’ampia pubblicità firmata Focus Features, la storia non sembrerebbe offrire nulla di nuovo, giusto pane per i nostalgici di Isabelle Huppert nei panni della mefistofelica Pianista di Haneke o viagra per i fanatici dell’attrice australiana che interpreta l’ennesima belle saffica sui generis. Non è così. Todd Field è un outsider nel panorama della regia d’autore contemporanea: dopo una carriera un po’ altalenante come attore di ruoli secondari e terziari in film poco ricordati, il regista californiano, classe ’64, ci regala tre regie straordinarie, con In the Bedroom (2001), Little Children (2006) e l’ultima sua fatica, Tár. Sì, la chiamo fatica, sia perché è il suo film più complesso, sia perché la sua breve ma intensa carriera segue un’evoluzione unica: è pressoché impossibile riconoscere un filo continuo, una firma ravvisabile in ciascuno dei suoi film così da poter identificare cos’è Todd Field, quale sia il suo stile. Todd Field non è Todd Haynes, e nemmeno Tom Ford, per quanto un cinefilo poco esperto come me possa far confusione con le similitudini dell’onomastica. Chissà se Tár sarà quella prova del nove giunta a consacrarlo nell’Olimpo, così come Il cigno nero ha spezzato l’incantesimo che confondeva Natalie Portman con Keira Knightley. Io credo proprio di sì, e cercherò di spiegarvi il mio perché.

Tár di Todd Field
“Tár” di Todd Field (Credits: Focus Features)

Field elabora una storia tanto vera quanto surreale, e per farlo si serve dei migliori tropi e delle migliori tecniche della scrittura postmoderna: crea un personaggio, Lydia Tár, e lo inserisce nel tessuto del nostro reale, declinato nel mondo della musica classica contemporanea; lo riempie di achievements, dal PhD in Musicology all’Università di Vienna all’Oscar per la miglior colonna sonora per un fantomatico Patterns; lo fa addirittura conversare con Adam Gopnik, vero e proprio critico di punta del The New Yorker, e non a caso l’intervista è all’inizio del film, dove ci vengono fornite le coordinate per individuare questa figura:  non credo che l’intenzione sia tanto lontana da quell’idea dell’autorialità senza autore sistematizzata da Barthes. Ma l’effetto va ben oltre la denegazione romanzesca: se l’intervista con Gopnik appare a pieno titolo come uno spezzone preso da un Ted Talk su Youtube, ai titoli di coda (intelligentemente inseriti alla fine di questa scena, e non alla fine del film) il desiderio è di digitare il nome di Lydia Tár su internet, per verificare qual è l’identità che si cela dietro l’interpretazione di Blanchett. Non affrettatevi, state tranquilli: Lydia Tár non esiste, non è esistita e non esisterà mai, anche se i nostri occhi vorrebbero crederlo. Ma in qualche meandro della nostra mente, nelle pieghe del nostro cuore, tra gli spazi bianchi dello spartito della nostra anima, Lydia Tár esiste, è già realtà. La costruzione verosimile di questo personaggio (con tanto di pagine di Wikipedia e dialoghi con Alec Baldwin) non è nemmeno espressione del desiderio di renderlo tanto più umano quanto più ‘relatable’, perché, possiamo ammetterlo, Lydia Tár non ci sta simpatica, e la sua persona, sia come professionista che nel privato, rimane problematica. La regia, poi, non indulge sulle sue azioni, non la giustifica, la narrazione omette sguardi che potrebbero umanizzarla e la composizione dell’intreccio non aiuta alla comprensione, ed infine la glaciale impenetrabilità dello sguardo di Blanchett non ci muove a compassione.

“Tár” di Todd Field (Credits: Focus Features)

Le recensioni al film, dalle riviste di critica più raffinate alle macchine editoriali più potenti, non sono mai state così miste: c’è chi ha lodato il film senza fornire una risposta convincente e chi invece lo ha condannato, con modalità molto limitate, aggiungerei. Ammetto di aver letto tante recensioni al film, e in questo sono stato mosso sostanzialmente da una vaghezza d’intenzioni: non sapevo di cosa scrivere, su dove concentrare l’analisi, dove dirigere la ricerca. La stessa confusione dell’intenzione è un tema costante nella pellicola: se molta critica di stampo femminista ha voluto inneggiare alla post-MeToo era, omologando una serie di luoghi comuni sulla dicotomia carnefice-vittima, anche qui devo riprenderla, e scoraggiarla da letture troppo sempliciste. Il regista non giudica, dirige, e se possiamo capire qualcosa circa l’intenzione autoriale è che Field ha una conoscenza meticolosa e raffinata della critica musicale, a tal punto da farmi vergognare di non aver mai ascoltato Mahler.

Tár di Todd Field
“Tár” di Todd Field (Credits: Focus Features)

Tár è anche un saggio filosofico sulla natura che corre tra l’arte e l’amore, e per quanto le azioni della protagonista come direttrice della Berlin Philarmonic Orchestra e la parzialità dei suoi giudizi in sede di audizioni possano lasciare molto a desiderare, nemmeno questo è il punto dell’intenzione del suo autore. A due terzi del film, Tár si trova al centro di uno scandalo mediatico dove è rappresentata come una predatrice di giovani ragazze pronta ad elargire favori di carriera in cambio di prestazioni sessuali: l’internet esorta alla sua cancellazione, viene congedata dal comitato etico dell’Orchestra, è nel mirino delle indagini sul suicidio di una giovane musicista, alla luce di materiale che la incrimina come colei che l’ha spinta al gesto estremo; proprio questa figura fantasmica presente nella narrazione, Krista Taylor, apre ad un’altra lettura del film: il culto del mito, i fantasmi dei padri. E in questa prospettiva, condita un po’ con leitmotifs shakespeariani e influenzata da analisi freudiane, il giudizio di Field è certo, sicuro: siamo tutti quanti perseguitati, personaggio reale o simbolizzazione di un archetipo che sia, abbiamo tutti un mito personale. Esso è negativo, perché ci condiziona a tal punto da non riuscire a superarlo; diventa positivo se, una volta confrontato organicamente, riesce a servire da ispirazione. E l’ispirazione è qualcosa di incontrollabile, prende le mosse da tutto e da niente, da cose e da idee di cose, da spiriti reali e da oggetti finzionali.

“Tár” di Todd Field (Credits: Focus Features)

In un’altra scena madre del film, dove Tár tiene una lezione alla Julliard, vediamo Blanchett dilettarsi in un’invettiva contro l’alunno sfrontato che, senza esitazione alcuna, ammette di non suonare Bach perché lo considera una figura discutibile, in linea con le rivalutazioni pseudo-moraliste dell’opinionismo incoraggiato dal trionfo liberale della narrazione personalistica: l’aspirante direttore d’orchestra pansessuale e non bianco dichiara di non suonare musica creata da compositori bianchi, etero e cisessuali, e Tár prontamente lo redarguisce, con ostinato sarcasmo. “Il narcisismo delle piccole differenze conduce al conformismo più noioso”: mi chiedo se Field, con questa scrittura ricercata, non abbia voluto implicitamente prendere in giro anche noi critici, che di arte ci viviamo, non meno e non più degli artisti. Hai ragione però, caro Todd, oggigiorno non esistono più teste come quella di un Roger Ebert. Dans tout cas, la categoricità della critica è indice di una vaghezza d’intenti, e con questo sono d’accordo con il regista. Chi ha voluto relegare il film ad un tentativo, fallito, di mostrare le contraddizioni di una figura celebre alle prese con la gestione del potere e dei potenziali abusi che ne porta in nuce, secondo me si è limitato ad una lettura superficiale del film. E non lo condanno, anzi: come Tár invita gli studenti a suonare musica “che realmente richieda qualcosa da loro”, anche Field ci delizia con un’opera che ci incoraggia a farci più intelligenti, più furbi.  

Tár di Todd Field
“Tár” di Todd Field (Credits: Focus Features)

In piena sintonia con l’interpretazione hegeliano-crociana dello spirito artistico, Tár rifiuta qualsiasi tentativo di disciplinamento della creatività, dell’estro, del genio: la narrazione del carnefice pubblicamente ostracizzato si risolve come solo uno degli infiniti piani di lettura del film, e ciò conferma che Field è l’autore meno pop che si possa trovare ad Hollywood. C’è qualcosa di squisitamente europeo nella sua scrittura, una visio che è sì condizionata dai tempi che cambiano ma che riesce a trovare giusti mezzi per esprimerla, rifacendosi al compianto cinema intellettuale di un Bergman o un Tarkovsky. E diciamocelo, se Persona o Sacrificio producono letture altamente significative anche a cinquant’anni di distanza dalla loro prima ricezione, è perché i geni che li hanno creati erano decisamente avanti con i tempi; chissà se un Guadagnino o un P. T. Anderson saranno ancora apprezzati nel 2040. Sicuramente avranno la loro ben meritata targhetta, perché anche il camp è stato dignificato dal Canone. Ciò di cui sono sicuro è che Tár finirà nel Criterion dei grandi classici, ma non per l’immediatezza della sua ricezione: non è postmoderno ma nemmeno neorealista, non è camp, non è politico: è un capolavoro senza precedenti. Speriamo che ci siano conseguenti.

“Tár” di Todd Field (Credits: Focus Features)

La sua esecuzione continua riproduce esperienze estemporanee, conflittuali, così come i brani di uno Schubert o di un Vivaldi, arriva a toccare delle corde che ancora non sappiamo suonare. Cate Blanchett dà la prova migliore di tutta la sua carriera, attraverso dialoghi in un tedesco perfetto e dimostrando di saper suonare Bach magnificamente. La sua figura subisce un décalage inevitabile, nella sua trasformazione mediatica da artista affermata a mostro irredimibile. E non a caso, dato che ho parlato di linguaggio, le stesse lettere che compongono Tár formano anche le parole Rat e Art. Forse Field vuole dirci che è davvero sottile il confine tra elogio e disprezzo, memoria e oblio, e che il mondo attuale con le sue richieste di efficienza non aiuta analisi che si posizionino al centro di binarismi sensazionalistici. Ma questa sarebbe un’ennesima lettura parziale del film.  

Tár di Todd Field
“Tár” di Todd Field (Credits: Focus Features)

Tár è un invito alla lettura della complessità, un enigma dove le soluzioni sono plurime, soprattutto perché la scrittura si rivela essere, ad ogni immagine e ripetizione, così densa e carica da produrre semiosi illimitata, e poi giù in questo universo di possibili indicazioni e infinite prospettive, che senza giustificare un’idea o una posizione raccolgono l’intuizione più importante dei nostri tempi, il paradosso di una complessificazione crescente che non si è ancora accompagnata ad una raffinazione degli strumenti per guardare il reale, o i reali. Tár è anche una masterclass sui potenziali reali che accolgono le ombre e le sfumature di un genio e della sua sopravvivenza nell’era dell’informazione post-globalizzata, dei monopoli mass-mediatici e degli imperi dell’industria culturale, dove l’unico interesse è nel condannare o nell’assolvere, dove le vittime non possono essere carnefici e i cattivi non hanno possibilità di redenzione, dove o sei Keanu Reeves o sei Roman Polanski, dove l’estetica è stata elevata ad arte e l’arte non interroga più nessuno, nemmeno chi la crea. Tár è il grido del cigno morente che disperatamente si aggrappa al filo sottile che lega la vita e l’arte, e con le ultime note del proprio repertorio, ci chiede di prenderci del tempo, di non giudicare l’arte per una volta, ma di sentirla, di viverla. Tár è tutto ed è niente. Tár è Arte. Tár is Art.

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