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a cura di virginia maciel da rocha

Disclaimer: la rubrica yanco diaries prevede che gli articoli scritti al suo interno rispettino alcune caratteristiche proprie di questo genere letterario. Si parla in prima persona, si danno opinioni non richieste, i punti di vista sul film in questione possono come non possono essere prettamente oggettivi o tecnici. Quella che segue è una vera e propria pagina di diario, con tutti gli excursus del caso – se la vostra intenzione è di leggere una recensione o una scheda tecnica approfondita sull’ultimo film di Walter Salles, vi consiglio di cercare altrove.

Da due anni a questa parte non riesco ad andare alla Mostra del Cinema di Venezia, per mille motivi diversi. Di solito, non vivo questa assenza al festival come una mancanza, ma quest’anno mi è capitato di sentire una lievissima fitta al cuore quando ho scoperto che al Lido sarebbe stato presentato Ainda estou aqui («Sono ancora qui») l’ultimo lavoro del regista brasiliano Walter Salles. Salles è uno dei miei registi preferiti – certo, non tutti i suoi film mi piacciono allo stesso modo (e perchè mi sto riferendo proprio a On the road?), ma comunque questo film rappresenta il ritorno dietro la macchina da presa dopo ben dodici anni dal suo ultimo lungometraggio; inutile dire che l’attesa si stava facendo sentire già da un pezzo. Per fortuna, per grazia divina, per qualche meccanismo ciclico dell’universo, sono riuscita a recuperare in tempi relativamente brevi Ainda estou aqui al cinema Greenwich a Testaccio, dove, all’interno di una rassegna dedicata, sono stati riproposti al pubblico romano alcuni titoli presentati a Venezia. Il film rappresenta almeno il terzo lungometraggio dell’anno incentrato sul tema della dittatura militare che ha governato in Brasile per un ventennio: preceduto da A batalha da Rua Maria Antonia di Vera Egito e di Rafael Conde, il film di Salles indaga le dinamiche di una famiglia borghese in seguito alla sparizione, per volontà dei militari che hanno preso il potere, del padre-marito Rubens Paiva (interpretato da Selton Mello). La storia reale della famiglia Paiva è una storia di resistenza e di lotta contro il regime dittatoriale durata decenni interi: dal momento in cui Rubens esce di scena la moglie e madre di famiglia Eunice Paiva (Fernanda Torres) decide di mettersi alla disperata ricerca del marito, fino a che la sua azione non si conclude con il conseguimento, da parte dello Stato brasiliano, del certificato di morte del marito.

«Ainda estou aqui» di Walter Salles (Credits: Globoplay)

Quello che accomuna il film di Salles ai due lungometraggi che hanno debuttato nel corso dell’ultimo anno è la prospettiva che adotta, dal punto di vista di chi ha subito in prima persona la repressione dittatoriale. Rubens Paiva, che pur contava un passato come deputato comunista, prima dell’esilio ordinato dai militari dopo il colpo di stato, non era un attivista di professione – al contrario di Zé, attivista che ha scelto la via della clandestinità per opporsi al regime e al contrario delle gesta degli studenti dell’Università di San Paolo che nel 1968 si sono scontrati con i loro coetanei della McKenzie, università privata e conservatrice. La dimensione familiare e intima di quella che viene vissuta prima come una tragedia familiare e, in un secondo momento, come caso nazionale è la cifra del lungometraggio e forse è per questo motivo che ha toccato le corde più profonde dei più che lo hanno visto in anteprima a Venezia. Sono entrata in sala con aspettative abbastanza alte – e, diciamocelo, che il film potesse non piacermi non era neanche un’opzione che contemplavo – ma quando sono uscita non ho potuto fare a meno di chiedermi (un po’ alla Carrie Bradshaw maniera) che cosa ne sapesse il pubblico intorno a me di quel preciso segmento temporale (anche piuttosto recente) che ha affrontato il Brasile.

Ainda estou aqui
«Ainda estou aqui» di Walter Salles (Credits: Globoplay)

Con un po’ di imbarazzo e vergogna cosmica, quella che si prova non per una nostra mancanza specifica, ma nel momento in cui ci rendiamo conto che sì, avremmo potuto fare di meglio e ci saremmo potuti informare prima su determinate questioni, ammetto di aver scoperto relativamente tardi che il Brasile, il Paese in cui mio padre e metà della mia famiglia sono nati, quello con cui condivido una lingua, una cultura e una cittadinanza al pari di quella italiana, è stato una dittatura. Recuperare una cronistoria della mia presa di coscienza in materia sarebbe impossibile, ma quello che so e che mi ricordo bene è la fatica che ho fatto per capire quale forma di governo fosse precisamente quella che ha governato il Paese dal 1964 al 1985. Crescere in Italia (ma in Europa, in generale) costringe chi vi abita a fare subito i conti con un passato oscuro e luttuoso, quello del ventennio fascista. Non c’è piazza o via che non sia intitolata a un eroe o martire della resistenza contro il nazifascismo – nonostante una forte componente coloniale e, appunto, fascista, non manchi di infestare le vie del Paese che sembra uno stivale: basti pensare all’intero quartiere Africano nella capitale. Sappiamo bene che cosa siano stati i regimi totalitari fascisti e nazisti, sia dai programmi scolastici ministeriali, sia per gli innumerevoli riferimenti in cui, volenti o nolenti, ci imbattiamo on a daily basis. Quando ho capito che un ristretto gruppo di militari aveva preso il potere con un colpo di stato, nel 1964, in Brasile, mi ci sono voluti due rapidi calcoli per capire che mio padre e le sue sorelle sono nati e cresciuti sotto uno stato dittatoriale. Quello che, però, non riuscivo a spiegarmi, era come fosse possibile che la cultura internazionale – di stampo prevalentemente filostatunitense – circolasse liberamente nel Paese. In che senso un concerto dei Queen è stato organizzato a Rio de Janeiro nel 1985? Com’è possibile che, comunque, i film di Godard e Antonioni fossero arrivati nelle sale brasiliane dell’epoca?

Ainda estou aqui
«Ainda estou aqui» di Walter Salles (Credits: Globoplay)

Quando si parla della dittatura militare brasiliana, spesso si usano diverse etichette; tra le più gettonate vi è quella di «oligarchia», come a dire che sì, d’accordo, era un piccolo manipolo di persone a governare un interno paese, ma mica avranno mai fatto cose brutte come quelle in Europa, o nel vicino Cile, no? Beh, no. Come spiega in maniera abbastanza chiara il film di Salles, sparizioni, torture e decessi per mano dello Stato erano più o meno all’ordine del giorno – esattamente quello che ci si aspetta da un regime dittatoriale e da una forma di governo che annienta la democrazia. Alcuni importanti artisti, soprattutto in ambito musicale, riuscirono a evadere piuttosto in fretta dal Paese – non è un caso che nel film ci sia una sequenza dedicata alla polizia militare che scova in casa Paiva alcuni dischi “pericolosi”, ovvero quelli incisi da Caetano Veloso e Gilberto Gil, quest’ultimo, esiliato, viene nominato successivamente anche in una delle lettere che Veroca (Valentina Herszage), la figlia maggiore, invia a casa mentre si trova a Londra. Quando lo scorso marzo sono andata a far visita ai miei zii, che abitano a Lisbona, ho chiesto loro alcune informazioni su come avessero vissuto questo periodo storico. Il fatto che siano entrambi nati a fine anni settanta o inizio ottanta non ha consentito loro di darmi un punto di vista personale sulla questione; mi hanno però raccontato di quello che sapevano tramite i loro genitori o parenti più grandi. Ancora una volta, con un briciolo di vergogna, mi sono chiesta perchè nessuno fosse scappato dal Brasile in questo momento così critico; i miei zii mi hanno risposto ragionando in termini di distanze geografiche: il Brasile è uno stato grande quasi quanto l’Europa, dove sarebbero potuti scappare, i suoi abitanti? In Cile, o in Argentina, dove comunque avrebbero trovato un’altra dittatura, ma con una lingua diversa? Da persona che è nata e cresciuta in Italia e da sempre ha ricevuto un’educazione scolastica fortemente eurocentrica, mi rendo conto che non sia facile fare un ragionamento in questi termini; se mai, nei programmi scolastici, si parla di Sudamerica o America centrala è per fare riferimento a Pinochet, ricordarsi che Madonna ha recitato in Evita e che Hernan Cortés «e i suoi» hanno sterminato un intero popolo, e tante buone cose.

Ainda estou aqui
«Ainda estou aqui» di Walter Salles (Credits: Globoplay)

Non voglio impelagarmi in questioni che vanno ben oltre il film – anche se sarebbe il caso di chiedersi in che modo stiamo studiando o abbiamo studiato la storia fino a ora. Ho visto questo film al cinema con la mia migliore amica e coinquilina e il mio ragazzo e, al contrario loro, mi sono emozionata quando ho visto che i bambini bevevano il latte con il cacao in polvere che, per me, ancora è sinonimo di una bevanda che mi facevo preparare ogni giorno da piccola. Ho riconosciuto, alla fine del film, Fernanda Montenegro e ho fatto loro notare che l’attrice è la madre nella vita reale della protagonista Fernanda Torres; ho riconosciuto una canzone di Roberto Carlos che passa alla radio mentre alcuni personaggi stanno guidando dall’aeroporto a casa. Ho provato a spiegare loro – nei giorni precedenti e in quelli successivi alla proiezione – quanto fossi contenta di vedere la faccia di Selton Mello e di Caio Horowicz sul grande schermo, come se fossero finalmente usciti dal mio pc per approdare su un dispositivo diverso. Non sono volti troppo noti al cinema europeo e, di conseguenza, non li ho mai visti al cinema in Italia. Quella del Brasile, quella del Sudamerica, è una storia che non si sente raccontare da queste parti.


Alcuni film e documentari utili per approfondire il tema: O Ano em que Meus Pais Saíram de Férias (2006) di Cao Hamburger, The Edge of Democracy (2019) di Petra Costa, (2023) di Rafael Conde, A batalha da rua Maria Antônia (2023) di Vera Egito, Behind Closed Doors (2023) di João Pedro Bim.

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