approfondimento a cura di pavel belli micati
Qualcosa che mi pare immutabile, nel cinema, sono le descrizioni della vita di provincia. La provincia soffoca, la provincia non offre nulla di poetico; o al contrario, la provincia è uno spazio metafisico sospeso, dove reinventare una mitologia dell’immaginario. Come una famiglia lontana, o un peccato originario, il cinema racconta la provincia come infanzia a cui tornare o inferno dal quale fuggire, e mi sembra sempre di assistere – quando non a carmi di elogio – a eresie in disprezzo della vita che vi trascorre. Ma l’occhio attento di un cuore sensibile sa individuare un piano mediano tra i due estremi, e su quello incidere le proprie disposizioni estetiche. È il caso delle salmodie audiovisive di Alessandro Comodin, italiano classe ’82 che con Gigi la legge, in concorso a Locarno 75, sottoscrive il terzo lungometraggio da regista e ratifica la propria poetica.

Comodin, che nasce a San Vito al Tagliamento ma risiede in Francia, è uno di quei cineasti che al cinema ci arrivano come per miracolo. Se nuove generazioni di registi apprendono la tecnica senza capirne il linguaggio, il noviziato del regista friulano è invece umanistico: parte dallo studio delle Lettere a Bologna, continua il rodaggio nel cinema francese e infine completa l’apprendistato all’Istituto Superiore d’Arte di Bruxelles, diplomandosi con un documentario sulla caccia, Jagdfieber (2009), presentato nella “Quinzaine des Réalisateurs” di Cannes 62. Stabile a Parigi, c’è qualcosa che però riporta Comodin – come un figliol prodigo alla patria potestà – alle sue origini, e nella trilogia della provincia (come l’ha rinominata il sottoscritto), il regista scandaglia il possibile che offre la sua terra delicatamente posata sulle rive del fiume che taglia in due la regione più a nord-est della penisola.

«La mia più grande disgrazia è di non venire da nessuna parte», dice uno dei personaggi sul finire de I tempi felici verranno presto (2016), presentato a Cannes 69 nella Settimana della Critica. Il film, scritto assieme a Milena Magnani (che co-scrive anche il secondo lungo di Danilo Caputo, Semina il vento, prodotto da Okta Films nel 2020), è un mosaico di immagini che mescolando un antico remoto e un passato recente, insieme ad aneddoti e interviste, raccolgono l’eredità della favola, sia nel suo impianto mitico che nei suoi sensi comuni secolarizzati. Attingendo ai tropi del lupo cattivo, dei boschi misteriosi e delle tane nascoste, il mistero della figlia di Dino diventa una leggenda senza tempo e la sua mitologia trasforma la patologia di una giovane donna in un rito sacrificale che sconfessa l’insensatezza dell’evento tragico.

Solo l’insensatezza muove una storia che non procede né per logica né per spiegazioni, sembra suggerire il regista, proprio perché, pure nella drammatizzazione che il cinema fa del reale, c’è poco da spiegare. Anche se I tempi felici verranno presto gli guadagna la fama di favolista dell’ordinario, quello che allontana Comodin da tale etichetta è l’assenza di un significato, vuoto continuo che permea di fatto tutta la sua filmografia; persino nelle favole vi è implicito un messaggio e lo scenario è il significante attraverso cui veicolare un principio: per Comodin il significante diventa significato stesso della sua immagine, così che, per quanto il ritorno alla propria terra può essere un’esperienza dagli echi biblici, non c’è nessuna esegesi nelle sue tele natie. Questa è la sensazione che restituisce la visione del suo esordio, L’estate di Giacomo (2011).

In questo tableau espressivo premiato a Locarno 64 col Pardo d’oro, opera che fugge dalla classificazione di documentario – ma nemmeno sposa l’etichetta di narrazione finzionale – Comodin mette in dialogo sensazioni di immagini che ci immergono in un’estate infinita, all’ombra della fitta vegetazione che riposa sulle rive della nostra lontana giovinezza: Giacomo è un ragazzo come tanti, gli stessi desideri e slanci di qualsiasi altro suo coetaneo. L’ unica caratteristica che lo rende speciale è l’udito, in parte ridotto. La sua ipoacusia però non è un pretesto con cui il regista muove il focus dall’immagine al suono nella loro accordanza, ma è simbolo della posizione solitaria, nomadica, dell’ipostasi. L’ultima opera, Gigi la legge (2022), sembra affermare l’approdo al vagabondaggio poetico di Comodin.

Pierluigi Mecchia, Gigi per gli amici e zio di Comodin per la cronaca, è lo storico vigile urbano di San Michele al Tagliamento: tra pattuglie di giorno e ronde di notte, questa figura singolare si inoltra per i tetri misteri e le tristi scomparse che gravitano attorno la ferrovia del paese. Presentato in anteprima a Locarno, il film, seconda produzione di Okta Films, ha vinto il Premio Speciale della Giuria. «Certe cose si pensano ma non si dicono», dice Gigi via ricetrasmittente alla voce che lo incanta, come sirena, dalla centrale di polizia. Nonostante il focus del film – esplicitato dal titolo – sia sul cittadino che per eccellenza applica la legge sul proprio territorio, e che i dialoghi in dialetto furlan siano accompagnati da porzioni di italiano più accessibile, il rapporto del protagonista col reale nondimeno ci estrania, perché fuori dal comune è la dialettica stessa di Gigi, come quando spiega ai compaesani il suo rifiuto di sistemare il giardino: «A me dispiace tagliare le piante perché è come ferirle».

I personaggi del cinema di Comodin sono giusto delle persone, ragazzi semplici, uomini comuni; eppure, è il loro sentire tutt’altro che normale a muovere il loro arco narrativo. La regia punta al canale fatico, sospendendo qualsiasi messaggio vi passi attraverso. In queste descrizioni, ciò che scosta la rappresentazione del reale dalla sua ricezione critica è la posizione della lente. Così, non è la denuncia simbolica dell’ordinario o la fascinazione estetica per la solitudine che Comodin porta a ritratto: la sua camera non è mai abbastanza vicina da permettere l’identificazione con, né sufficientemente lontana da prendere le distanze da la scena ritratta. La posizione è subalterna all’azione; certe volte l’accompagna, ma il più delle volte ne è vittima. Lo spettatore diventa la voce narrante, un po’ come nei racconti di Pavese; l’estate è lo scenario prediletto dall’artista, un po’ come un dipinto en plein air.

Sensibile all’attenzione che il contemporaneo ripone nella ricezione emotiva delle sue immagini, lettore impegnato di una letteratura dell’ermeneutica, l’io di Comodin procede per la linea sensibile dell’eco-critica e punta alla percezione dell’ordinario, riutilizzando tali tendenze in modi fortemente personali che alle volte invitano a una interpretazione personale, altre eludono la sua effettiva comprensione. Però, laddove è omessa un’enunciazione esplicita della trama, o una comprensione logica del suo apparato narrativo è negata, sopraggiunge sempre una delicatezza in perenne ascolto con le emozioni dei suoi tableaux interiori. La dichiarazione poetica di intenti è, come nella pittura espressionista, da ricercarsi nel tratto che la interrompe, oppure nelle pennellate che la proseguono, un po’ come le descrizioni delle opere di Cézanne.

Come le vedute dei panorami a cui arriva il post-impressionismo francese, i soggetti della trilogia della provincia di Alessandro Comodin non si individuano facilmente: il suo cinema non è un’elegia dell’ordinario, né una favola ispirata dalla vita reale. Le incursioni nel paesaggio friulano, questi scorci descritti, sono piuttosto le varie prospettive che colorano un’espiazione: una penitenza sia nel senso di forzatura posteriore, azione secondaria, sia nell’accezione di una spassionata arresa all’esistenza. È un atto di fede estrema lo stare, l’essere, il rimanere, proprio perché è una disgrazia non venire da nessuna parte. Chissà se è per questo che il regista non vive più negli stessi luoghi che ama dipingere. O forse sono io che non riesco a trarne una psicanalisi soddisfacente. Fatto sta che, come dice Stefania all’amico, verso la fine de L’estate di Giacomo, «Perché è nelle piccole cose la felicità, e tu non sai mai apprezzarla».
«La vita è così, per tutti», risponde lui.
Se volete recuperare la filmografia del regista, I tempi felici verranno presto e Gigi la legge sono disponibili su RaiPlay.