Di che cosa parliamo, quando parliamo di “The Brutalist” di Brady Corbet? Abbiamo provato a mettere insieme, in questa sorta di tavola rotonda, pensieri, parole, opere, omissioni e tutto quello che ci è passato per la testa durante (e dopo) la visione del film. Prendete sul serio queste nostre parole, ma con moderazione.
virginia
The Brutalist esce dalla 81. Mostra del Cinema di Venezia con un Leone d’Argento, nonostante – pressoché all’unanimità – il premio fosse stato previsto per Pedro Almodóvar. Dalle più o meno infinite storie che mi sono capitate sul feed di Instagram durante i giorni della manifestazione cinematografica (mentre mi ritrovavo a studiare per un’esame proprio nei primi giorni di settembre, a numerosi chilometri dal Lido), l’unica cosa che avevo capito dall’ultima fatica di Brady Corbet era che si trattava di un lungometraggio veramente lungo (haha) e che al suo interno conteneva un intervallo per gli spettatori in sala. Non mi sono informata sul tema, sull’argomento, neanche su chi fosse stato scelto nel ruolo del protagonista – io sono questa: amo le sorprese. Fortunatamente, ogni tanto Roma offre qualche spunto culturale non trascurabile e sono riuscita la scorsa settimana a recuperare il film, programmato all’interno della rassegna «Venezia a Roma» – non sono neanche sicura si chiami così, ma tanto queste rassegne hanno tutte lo stesso nome. The Brutalist si presenta come un film lunghissimo, ma che bello quando anche tre ore e quaranta al cinema passano velocemente! Sono dell’opinione di Alfred Hitchcock (ammesso che abbia veramente detto una cosa del genere e non sia una sorta di leggenda metropolitana), secondo cui la durata di un film dovrebbe essere proporzionale alla capacità di resistenza della vescica umana. In questo caso, menomale che Corbet ha voluto inserire un intermezzo.
Protagonista della storia è un architetto brutalista (ma non mi dire) interpretato da Adrien Brody, che decide di intraprendere un lungo viaggio dall’Ungheria per trasferirsi stabilmente negli Stati Uniti durante il Secondo dopoguerra e cercare lavoro. Incontra un ricco mecenate, interpretato da Guy Pearce, ormai particolarmente abile nel ricoprire il ruolo di un ricco bianco e spocchioso anglofono (almeno dalla sua partecipazione in The Crown) e suo figlio, interpretato da Joe Alwyn, alle prese con il suo secondo ruolo da antagonista – mi viene da chiedermi se sia Lanthimos che Corbet siano fan di Taylor Swift o sia solo una mera coincidenza. I miei riferimenti alla trama si esauriscono qui, un po’ perchè il film deve ancora uscire in Italia, un po’ perchè comunque siamo tutti abituati al viaggio dell’eroe. Oltre all’incredibile fotografia, curata da Lol Crawley, al mesmerizing effetto della pellicola – almeno per i miei occhi ormai troppo abituati all’iperrealismo del digitale –The Brutalist è un film bellissimo non solo per la sua estetica. In parole povere, è un incrocio di Martin Eden di Pietro Marcello e Il petroliere di Paul Thomas Anderson: dal primo film recupera la rise and fall di un personaggio che si trova nella condizione di straniero in terra straniera e tutto il processo di ambientazione che ne consegue; dal Petroliere… beh, siamo negli Stati Uniti, alla fine. Sarebbe curioso fare un collegamento su tutte queste storie di orrore e greed statunitense (per citare un grande capolavoro del cinema, ingiustamente dimenticato) riportate sul grande schermo. Anche Killers of the Flower Moon superava le tre ore di durata, ma finché ne escono fuori film del genere, va benissimo ignorare le parole di Hitchcock.
emma
Come nasce il mito attorno ad un film? Certe volte si tratta di un’accurata operazione di marketing, altre volte di uno scandalo nella vita personale del regista o del ritorno tanto atteso di una star davanti alla cinepresa. Tuttavia, certe volte ancora basta solo che il film venga proiettato nel posto giusto davanti alle persone giuste. Quest’ultimo è il caso di The Brutalist, la sera del 31 agosto in Sala Darsena, alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. La fatidica proiezione stampa era particolarmente gettonata non solo a causa della grande aspettativa per il nuovo titolo di Brady Corbet, sei anni dopo Vox Lux, ma soprattutto per la possibilità di vederlo in 70mm – una voce che si era velocemente diffusa in tutto il Lido provocando sospiri frustrati da parte di chi non era riuscito a garantirsi un posto.
Chiunque fosse stato presente a quella proiezione non ha potuto mancare di descrivere, fosse in coda per il vaporetto la mattina successiva o in una recensione per una testata importante, la situazione che si era presentata in sala: un’atmosfera elettrica, un’ euforia collettiva e la sensazione di stare vivendo un momento epocale. Nelle parole di Rafa Sales Ross per Letterboxd, «The buzz one could feel during the fifteen-minute intermission for Brady Corbet’s much-anticipated epic The Brutalist felt it belonged to that one room and the people who got to experience it together. But soon, the crowd poured into those streets again, and the conversation around the film began to spread. Alongside Corbet’s name, voices echoed the ones of Martin Scorsese, Francis Ford Coppola and Paul Thomas Anderson. The word “masterpiece” was swirling in the air. A storm was brewing».
La velocità con cui è cresciuto l’hype intorno a The Brutalist è inversamente proporzionale a quella con cui si innalzano gli edifici progettati dal protagonista del film, László Tóth (Adrien Brody), un architetto ebreo-ungherese sopravvissuto all’Olocausto e emigrato negli Stati Uniti. L’incontro con Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), un industriale arricchito, permetterà a Tóth di realizzare il progetto più ambizioso della sua vita.The Brutalist è un’opera titanica, quasi mastodontica, che si riflette nel progetto di costruzione apparentemente impossibile di Tóth: con un budget di (soli) 10 milioni e la scelta di girarlo in VistaVision, non stento a immaginare che molti produttori abbiano avuto le stesse reazioni dei mecenati del protagonista davanti alla visione di Corbet. Nonostante il suo carattere epico (dopotutto, il film è diviso in un’ouverture e tre atti, con tanto di intervallo compreso al suo interno), The Brutalist non addolcisce mai la pillola, non smussa nessun angolo: sta allo spettatore trovare la bellezza – che, indubbiamente, c’è – all’interno di una costruzione così austera.
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