di virginia
Sabato scorso, il 20 maggio per la precisione, Lo Stato Sociale si sarebbe esibito in concerto a Prato. L’occasione era la Festa della Birra, manifestazione che ogni anno si tiene nel capoluogo di provincia, anche se non ha niente a che fare né con Monaco di Baviera, né con l’Oktoberfest. Chi, come me, è cresciuto in provincia, conosce bene queste realtà fatte di stand di street food, bomboloni, zucchero filato e mercatini. Di solito, in questi contesti, l’offerta musicale non si spinge più in là dei famous local singers (la locuzione non è mia, l’ha coniata Bobo Rondelli) ma non è stato questo il caso. Approfittando 5del fatto che siamo tutti – nello specifico, mi riferisco alla mia generazione – cresciuti ascoltando la 5musica dello Stato Sociale, ho chiesto un incontro stampa con Lodo Guenzi: questo è il resoconto della chiacchierata (forse un po’ sconclusionata da parte mia) che io e il mio amico Giulio abbiamo fatto prima del concerto.
Il fatto che Uncle Yanco sia un magazine di cinema è un po’ un pretesto per parlare di film, quindi ti chiedo quali siano tre registi con cui vorresti lavorare. Del resto hai appena recitato in un film di Pupi Avati, mica il primo venuto.
«Tre?»
Sì, tre.
«Giorgio Diritti, è di Bologna e ci ho fatto amicizia, è un grande. Francesco Bruni per una questione umana, perchè ha fatto un film che ha toccato una cosa della mia vita e da lì ho iniziato a scrivergli una mail che però non ho mai inviato. Se un giorno ci lavoro assieme gli spiegherò il motivo. Marco Bellocchio perchè voglio fare tutti gli emiliani».
Bellocchio spacca.
«Voglio avere a che fare con tutti gli emiliani, è un problema di dominazione del territorio! Sono tutti italiani e Bellocchio, in particolare, è tra i grandi maestri che ancora realizza cose belle e quindi dopo Pupi [Avati] mi piacerebbe avere a che fare anche con lui».
Ti sei sempre occupato attraverso diverse forme di espressione artistica di tematiche sociali, non sto neanche a dirlo, ma se dovessimo parlare sempre di cinema, quali sono, secondo te, cinque film – sì, aumenta il numero – che descrivono il presente in Italia?
«Ma con i film è difficilissimo! Non posso scegliere cinque canzoni?»
Sì, puoi scegliere anche quelle.
«Allora… ti scelgo: Vivere fuggendo di Pan del Diavolo; Domenica di Giovanni Truppi; un pezzo vecchio, Il liberismo ha i giorni contati dei Baustelle, un pezzo che aveva veramente visto il presente di oggi. Mi piace questa sfida, ora arrivo a cinque… Trentenni pelati di Auroro Borealo, grande brano, e alla fine Non pago affitto di Bello Figo.»
Siamo passati dal parlare di film a canzoni, ma secondo te qual è la forma più adatta per raccontare il presente?
«Il teatro, assolutamente, perchè è una forma di rapimento. Credo sia il modo più adatto perchè ci troviamo in una fase di sommaria percezione della società di massa, che però si ritrova priva di uno strumento culturale. Se tu entri nel linguaggio di massa, ogni tuo verso verrà estrapolato e diventerà una sintesi della tua vita anche se nessuno capirà quello che stai cercando di dire. Il teatro, invece, ancora più del cinema, è una forma di rapimento. Tu stai lì dentro per un’ora e mezza e non esci finchè non ho finito di spiegarti che cosa sto pensando, finchè non finisce il discorso: è l’unico posto in cui è possibile portare avanti una forma di provocazione, che stimola l’intelligenza.»
Non credi ci sia una sorta di pressione sul pubblico teatrale? Voglio dire, se io mi trovo tra il pubblico e lo spettacolo non mi piace, non me la sento di abbandonare la sala con qualcuno che, in carne e ossa, sta parlando di fronte a me. Mi sentirei come se gli stessi facendo uno sgarbo.
«Sì, esatto, è proprio per questo che funziona. Ti faccio un confronto con la musica: dalle canzoni è molto più facile estrapolare frasi e discorsi, mentre a teatro siamo sempre costretti ad ascoltare la fine del discorso o, perlomeno, dove va a parare, per trarne un senso generale. Siamo nella fase storica dei rapimenti, che si configura anche come l’unico futuro possibile – ma questo solo per i prossimi due o tre anni.»
E poi?
«Verrà sostituito da qualcos’altro… dopo il rapimento abbiamo il sequestro di persona… Allora, se devo dare una risposta seria ti direi che è molto chiaro che questo rifiuto della complessità che ha attraversato la cultura degli ultimi tre o quattro anni ha rotto il cazzo e lo sappiamo. Diciamo che l’appiattimento del linguaggio di massa all’interno del mercato è dilagante, al punto che oggi, quando arrivi a fare un disco, ti senti quasi in imbarazzo.»
Perchè?
«Beh, perchè escono seicento prodotti al giorno e ti ritrovi a chiedere scusa per il fatto di aggiungere rumore a dell’altro rumore, già esistente. Il mercato si è mangiato tutto lo spazio che poteva, ma questo spazio sta morendo: qualcuno aveva detto delle cose prima e in qualche modo sopravvive a questo meccanismo, riesce a salvarsi, mentre chi sta dicendo cose adesso non viene minimamente considerato perchè c’è già troppo rumore. È uno scenario molto deprimente, è un brutto momento per iniziare a fare musica.»
Credo sia un brutto momento per iniziare a fare molte cose nell’ambito culturale: alla fine, anche scrivendo su una rivista, con ogni probabilità non dirò niente che non sia già stato detto prima, mi rendo conto sia difficile iniziare un progetto in questo clima.
«Ma è una fase del mercato, non è un problema individuale. Non è che possiamo pretendere che ci venga lasciato qualcosa: il potere è qualcosa che nessuno concede e va preso, va preso all’interno di uno scenario di rapporti di forza in cui questa cosa è possibile. Ti faccio un esempio banale: noi dieci anni fa avevamo la tua età, facevamo un disco a cazzo di cane in un momento in cui il mercato non esisteva. Esisteva Radio Italia, esisteva Sanremo, ma era tutto in fallimento.»
Beh sì, Sanremo a quei tempi era un po’ il male.
«Era il male ma proprio per questo motivo era un bene per noi! In questo modo avevamo la libertà di pubblicare quello che ci pareva su YouTube, c’era attenzione per questa cosa. Adesso che tutto è saturato, dove puoi muoverti? È un tema che non si affronta mai ma è un tema reale: ogni generazione, purtroppo, si affaccia alla fase del capitalismo in cui vive e rispetto a quella fase sorgono diversi problemi di conseguenza. Tutte queste fasi non hanno mai a che vedere con il linguaggio espressivo.»
Ma di questo passo andremo sempre a peggiorare, io ho avuto la sfortuna di nascere dieci anni dopo di voi e avrò la fortuna di essere nata dieci anni prima della generazione che segue la mia.
«No, in realtà funziona abbastanza a cicli. La sensazione è che funzioni in modo ciclico, andiamo verso un peggioramento costante fino a che il mercato esaurisce la sua energia e nasce qualcosa fuori dal mercato. Chi se ne accorge lo comprerà – ed è quello che si è verificato negli ultimi tre, quattro anni – poi, però, verrà a noia anche tutto questo, ciò che stava fuori dal mercato e si configurava come un alternativa. Ora dirò una banalità, ma il prossimo fenomeno per cui tutti andranno fuori di testa sarà roba che adesso non trovi neanche su Spotify. Se io avessi quindici anni adesso e fossi ossessionato da una quantità esorbitante di uscite discografiche con ogni probabilità finirei per non ascoltare musica. E fino a ora abbiamo parlato di cinema, vedo!»
Sì, avevo notato anche io! Ma alla fine era solo un pretesto per chiacchierare.
«Non sono molto esperto di cinema, non me ne intendo e non mi vengono in mente film… mi vengono in mente n. film che raccontano di un Paese che non c’è, ma va bene anche così, non che sia un difetto in assoluto. Anzi, paradossalmente siamo molto bravi a raccontare dell’Italia come quel Paese che “non è più” invece di raccontarlo per come è davvero.»
Diverse uscite italiane recenti ruotano attorno al tema della nostalgia, che sia affrontata in modo individuale o collettivo, si ritorna sempre a questa grande tematica.
«Ah! Margini [di Niccolò Falsetti]! Questo è un film che parla di qualcosa che veramente esiste. Ma quante volte succede in Italia di trovare un film del genere? Lo abbiamo visto con La guerra degli Antò, un film che davvero raccontava qualcosa che esisteva, ma non è che possiamo dire qualcosa di male al Signore delle formiche per il fatto che decida di raccontare un’Italia che non c’è più.»
In sottofondo, dalla scaletta di musica che si ascolta in attesa di un concerto, parte Battiato, finiamo a parlare di Palombella Rossa e di come Nanni Moretti sia riuscito a fare un film serissimo non prendendosi per niente sul serio, un po’ come succedeva qualche anno fa con Sono così indie per lo Stato Sociale. Il tempo a disposizione è finito e di questa conversazione, in cui abbiamo parlato di tutto e di niente, la cosa che più mi è rimasta impressa è quanto, alla fine, sia vero il detto che “tutto il mondo è paese”: mi sarei aspettata tante cose, ma non che Lodo Guenzi avesse così tanta familiarità con Prato, i suoi locali e la sua gente.