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di pavel

Martedì prossimo, 5 marzo, Tafano lancia il quarto appuntamento di Indocili al Cinema Beltrade. Tra gli ospiti della serata c’è Caterina Biasiucci, con il suo Il mare che non muore (2020). Classe ’95, nata e cresciuta a Napoli, Biasiucci è a Milano per presentare l’opera che ha realizzato nell’ambito del Premio Zavattini, in un ambiente dove l’imperativo è la Memoria e il verbo la sua Trasmissione. L’uso personale di Biasiucci del Cinema d’Archivio crea racconti confessionali, storie lontane che in realtà sono tropi, residui intraducibili di emozioni che piegano spazio e tempo e arrivano fin dentro noi. Chi l’avrebbe detto che il Postmoderno non è morto, anzi, è vivo e più in forma che mai? Io, per Uncle Yanco, ho avuto il piacere di incontrare la regista e farle qualche domanda!

“Il mare che non muore” di Caterina Biasiucci (Credits: Indocili)

Ciao Caterina. Ho visto “Il mare che non muore e mi è piaciuto tanto”. Non siamo qui per rovinare la sorpresa al pubblico, ma una cosa che mi ha colpito è il processo di produzione. Tu hai vinto nel 2019 lo Zavattini, e tra quel momento e l’uscita dell’opera, l’anno successivo, molto è cambiato. La scoperta dei diari della nonna, ad esempio, è stata cruciale per la narrazione. Che rapporto hai con la memoria degli altri?

Caterina: «Sono molto contenta che ti sia piaciuto. L’idea del film è nata dalla volontà di raccontare un’unica storia attraverso volti mai uguali, quindi materiali d’archivio provenienti da diversi fondi e girati da persone diverse. In questo senso, la memoria altrui diventava memoria collettiva e la trasformazione delle memorie e delle storie è un qualcosa che mi interessa molto».

Tu è da molto tempo che lavori e crei nel cinema. “Il mare che non muore” è una sorta, permettimi la semplificazione, di antitesi del Cinema Verité. Non che non ci sia nulla di vero, anzi il contrario. Però, partendo dalla composizione, è particolare raccontare una storia attingendo a repertori di immagini del passato, sia più recente che lontano. Da piccola ti piaceva guardare le nuvole e indovinarne le forme?

«In questo lavoro l’archivio, ma anche il girato, viene risemantizzato, assumendo un nuovo valore attraverso la giustapposizione con le immagini che precedono o seguono, con il suono, con le parole o con i diversi supporti usati per filmare. In qualche modo questo è un po’ quello che tu dici, ritrovare una forma nuova in ciò che si vede, ridare significato, assumere nuovi aspetti».

In un’intervista a proposito del film collettivo al quale hai preso parte, “Procida”, racconti dell’importanza di come il tuo sentire passa attraverso agli altri. Sono immensamente d’accordo con te. Nella fase iniziale de Il mare che non muore, sei partita da un tuo sentire oppure ti sei lasciata ispirare da quello degli altri?

«Penso che si parte sempre da una necessità di racconto personale. Nel momento in cui il tuo lavoro viene mostrato si apre all’altro, trasformandosi necessariamente, e in qualche modo non è più tuo. Per quanto riguarda la realizzazione del film Procida questo passaggio avveniva immediatamente: i ragazzi e le ragazze giravano e giornalmente si guardava insieme il materiale, si aveva subito un pubblico, si discuteva delle immagini e del loro significato».

Caterina Biasiucci
“Il mare che non muore” di Caterina Biasiucci (Credits: Indocili)

Io qualche velleità da romanziere ce l’ho. Spesso mi accade di voler esprimere un mio sentire, ma molto più spesso preferisco attraversare quello degli altri. Tu preferisci raccontare storie o fartele raccontare?

«Sono una grande ascoltatrice di storie e una pessima narratrice. Non so raccontare le barzellette. Tuttavia, mi rendo conto che con i miei lavori mi rivolgo sempre all’interno, raccontando qualcosa di molto personale. Cerco e trovo la mia necessità di racconto sempre nella stessa materia, cercando ogni volta di spostarmi un po’, ma per me è come se raccontassi sempre la stessa storia. Delle volte la matrice personale è esplicita (come nel caso del documentario Appunti sulla mia famiglia) altre volte viene celata perché non strettamente necessaria, come accade in questo film, altre ancora sembra non esserci. Poi ogni racconto, anche il più personale, è fatto di innesti, ricordi supposti, fatti, personificazioni…»

L’archivio, come figura, rappresenta un luogo sospeso nel tempo, un serbatoio infinito di memoria. Io, ne “Il mare che non muore”, ci ho visto un’analogia con il mare. Ada, la tua protagonista, si immerge nel mare della memoria. La sensazione di essere sott’acqua è indescrivibile, spesso ci si sente più presenti a sé lì sotto che in superficie. È paragonabile alla sensazione che si prova quando si entra in un archivio, digitale o fisico che sia?

«Sicuramente. Gli archivi richiedono delle immersioni: in altri tempi, in altri spazi, in altre storie. Penso che quando ci si confronta con un archivio inevitabilmente si attinge ad un vissuto. Diventa una realtà parallela e cerchiamo, scegliamo, quello che in qualche modo è già dentro di noi, in una maniera più o meno conscia».

In un’altra intervista, hai affermato che il materiale selezionato per “Il mare che non muore” contava ben 70 ore, tra archivio e girato. Come sei riuscita a rendere un flusso senza perdere il centro? Quanto sono state d’aiuto poi, le maestranze tecniche che hanno partecipato alla postproduzione?

«Con Isabella Guglielmi, la montatrice, abbiamo lavorato molto alla catalogazione e alla selezione dei materiali d’archivio. C’è stata una ricerca lunga e una ancor più lunga selezione cercando quelle che erano le immagini davvero necessarie per il racconto che volevamo fare, immagini che avessero un significato visivo intrinseco. Una volta fatta la selezione, il montaggio è stata la vera fase di scrittura del corto. Così come il montaggio del suono, fatto da Giorgio Borrelli e Marcello Sodano. I materiali d’archivio erano tutti muti, il suono è completamente ricostruito. Abbiamo lavorato alla risonorizzazione in una maniera non del tutto fedele alle immagini, cercando di spostare sempre un po’ la percezione, usando suoni che spesso somigliano a ciò che si vede sullo schermo ma che non sono esattamente quelli che dovrebbero essere oppure enfatizzando alcune componenti piuttosto che altre».

Caterina Biasiucci
“Il mare che non muore” di Caterina Biasiucci (Credits: Indocili)

Ti capita di lasciarti ispirare da qualcosa da raccontare per poi farti indietro perché credi che sia qualcosa di troppo privato o personale? È comunque difficile raccontarsi, bisogna sapersi anche un po’ dissociare. O no?

«Credo che bisogna sempre cercare una misura, sia nelle storie personali che in quelle altrui. Il cinema offre un altro punto di vista, che non è la vita, ma un po’ più in là».

Siamo in un’epoca fiorente di registi emergenti. Tutti fanno cinema. A maggior ragione, per me che vengo da Roma… Il vaglio del tempo poi selezionerà chi ricordare e chi no. Tu credi che ci siano tanti poseur dell’audiovisivo che il cinema lo vogliono fare solo per essere ricordati?

«Credo che l’importante non sia cosa fai ma il modo in cui lo fai. Il tempo poi decide cosa ricordare. Per il resto, sono napoletana e vivo al Pigneto, peggio di così…»

Un’ultima domanda. Dopo quella filopolemica, ora tocca quella polemica per davvero. Un’opera al giorno d’oggi, affinché venga apprezzata (non solo vista), necessita di una grande pubblicità. Molta gente poi segue più la vulgata comune che non il proprio giudizio. Secondo te il marketing della distribuzione ha rovinato la godibilità dell’esperienza di ricezione?

«Dal mio punto di vista è più un problema di assuefazione. Ci si abitua ad un certo tipo di estetica e di linguaggio e si ricerca sempre quello, perché è più rassicurante. Si tenta di etichettare i film o le opere in categorie e questo dovrebbe indirizzare i nostri desideri di visione. Io non credo molto nel cinema come intrattenimento, non penso che i film siano dei prodotti e non credo che i registe/le registe siano dei marchi. Credo sia importante poter mantenere la propria autonomia espressiva al di là delle categorie dell’industria».

“Il mare che non muore” di Caterina Biasiucci (Credits: Indocili)

Necessità, autonomia espressiva, immersione: come dice Caterina Biasiucci, il cinema offre un altro punto di vista, che non è la vita, ma un po’ più in là. E sono d’accordo con lei. E aggiungo che il cinema deve necessariamente offrire Altro. L’audiovisivo non deve compiacere. Io, ad esempio, è da una settimana che non smetto di pensare a La Zona d’Interesse e adesso penso che scriverò di nuovo a Caterina per chiederle cosa ne pensa. Comunque, se anche voi desiderate vedere Altro, andate martedì prossimo, 5 febbraio, al Cinema Beltrade. Biasiucci sarà presente col suo Il mare che non muore. Lasciatevici immergere. 

Caterina Biasiucci

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