di virginia
In occasione della rassegna Indocili, organizzata da Tafano Cinema in collaborazione con il Cinema Beltrade di Milano, abbiamo incontrato il regista Alberto Diana. Classe 1989, Diana realizza un cortometraggio incentrato sugli scontri che hanno visto come protagonisti il popolo colombiano contrapposto alla polizia. Nel corso di pochi minuti e servendosi del riutilizzo di materiali d’archivio, Carta urgente para Colombia si presenta come lo spaccato di una pagina brutale della storia del Paese e invita lo spettatore a riflettere su quelli che dovrebbero essere gli organi statali preposti a proteggere i cittadini.
La storia narrata, per quanto recente, sembra ricalcare passo per passo molti episodi di soprusi e violenza del passato, avvenuti in diversi paesi del mondo. Il film recupera una narrazione “antica”, cioè quella epistolare, e la unisce a un tipo di rappresentazione della realtà molto moderna e contemporanea, servendosi di video girati con smartphone, come se l’intento fosse quello – correggimi se sbaglio! – di far vedere che la crudeltà del passato, sotto forma di repressione, è, di fatto, ancora molto viva oggi. Da dove è venuta questa idea?
«Nella primavera del 2021 mi trovavo in Italia: allora eravamo ancora in lockdown, senza la possibilità di uscire dalle nostre case, dalle nostre città, dal nostro paese. Da qui, osservavo dalla distanza la brutale repressione delle proteste di piazza da parte della polizia e dell’esercito in Colombia. Sono stato lì a più riprese, dal 2016 fino allo scoppio della pandemia, nel febbraio del 2020. Da allora non avevo più fatto ritorno a causa dei travel ban. A Medellín c’erano delle persone a cui ero molto legato, e sentivo che erano in pericolo. Ho iniziato a scambiare dei messaggi con i miei amici, loro hanno iniziato a condividermi dei video sulle violenze. Di fronte a quelle immagini avvertii un senso d’impotenza. L’immediatezza di queste immagini mi rendeva consapevole di una duplice violenza: da una parte, quella effettiva della repressione in corso; dall’altra, quella dettata dall’impossibilità di poter agire. La corrispondenza è partita da lì: è una scelta che nasce dall’esigenza di provare ad azzerare questa distanza e ricucire un qualcosa che sembrava essere ormai rotto. La forma epistolare mi affascina poiché trova dei precedenti nel cinema sperimentale e di avanguardia che per me sono stati di grande ispirazione (penso a Chantal Akerman, Jonas Mekas, Chris Marker)».
Si può dire che il cortometraggio si componga di found footage e materiale d’archivio — per quanto non sia estremamente preciso usare questa definizione, dato che si tratta di eventi recenti e, quindi, non immagazzinati in archivi storici ma in quelli che possiamo definire gli archivi digitali dei nostri dispositivi elettronici. Quale importanza ricopre, secondo te, questo tipo di tecnica? In un mondo in cui ognuno, potenzialmente, potrebbe improvvisarsi un filmmaker (data la grande semplicità nel reperire strumenti che consentano la video e audio registrazione), che ruolo ricopre oggi, la figura del regista?
«Per me può essere appropriato parlare di archivio anche in questo caso, oppure di “immagini pre- esistenti”. In Carta urgente, da una parte, si tratta di materiali trovati su internet e ricondivisi via chat. Dall’altra, sono immagini che ho girato io stesso col cellulare. Potenzialmente, tutto è archivio! Pur essendo fonti diverse, il gesto è lo stesso: (ri)appropriarsi di un materiale per svincolarlo dal significato originale e trasformarlo in racconto. Forse l’archivio, più che un concetto chiuso, va riconsiderato come una pratica, un metodo: ogni film trova una chiave diversa per rapportarsi a questo materiale, mettendone in discussione lo statuto di documento (o, peggio ancora, di “verità”). Il film ha trovato la sua forma nel corso di una residenza artistica chiamata Remix, organizzata dall’associazione L’ambulante, che ha avuto luogo quello stesso anno. Credo che il ruolo del regista possa trovare nuova linfa in questo gesto, che è in primis un gesto liberatorio e di emancipazione di fronte alla natura apparentemente monolitica delle immagini».
Il titolo stesso rimanda alla dimensione di uno scambio epistolare. Oggi come oggi, però, è molto difficile restare indifferenti o guardare dall’altra parte, anche grazie alla complicità dei social media; con la diffusione capillare di video, notizie, foto e altre forme di testimonianza, è molto difficile usare come scusante la lontananza fisica e geografica che può separare un paese come l’Italia dalla Colombia. Il film che hai realizzato ha, evidentemente, uno scopo documentaristico e di denuncia sociale e a tal proposito ero curiosa di sapere che ricezione ha ricevuto, in entrambi i Paesi che coinvolge.
«La dimensione epistolare per me è fondamentale, perché si lega non solo alla denuncia, ma anche all’intimità e alla prima persona. Il titolo riprende una canzone di Silvio Rodriguez a cui sono molto legato: Canción Urgente para Nicaragua. Il cantautore cubano la scrisse dopo il golpe reazionario che abbatté la rivoluzione sandinista negli anni ’80, e ha una forte carica politica. Nel mio caso, però, è presente soprattutto una dimensione personale: ci sono scene in cui ripeto diverse volte la stessa immagine. È un gesto istintivo, che riprende quello che per me fa parte del processo di visione (ma anche di montaggio). Ogni volta che riguardiamo un’immagine, questa evoca qualcosa di diverso. Sono le immagini stesse, a volte, a guardare noi. Mi interessava catturare questa parte del processo, e restituirla nel film. Per quanto riguarda la ricezione, in Italia sicuramente c’è stato grande interesse rispetto alla situazione politica e sociale della Colombia, che in molti non conoscono rispetto ad altri paesi del Sud America. In Colombia purtroppo non ho avuto ancora la possibilità di mostrarlo in pubblico, ma le persone che l’hanno visto si sono interrogate soprattutto sulla forma filmica».
In tempi difficili come questi, torna sempre in modo prepotente lo slogan secondo cui il cinema dovrebbe avere una funzione di intrattenimento, per alleviare le tensioni del presente e lasciare allo spettatore una via di fuga e di sospensione dalla realtà. D’altra parte, il cinema, grazie alla sua grande carica pervasiva e ipnotica, ha l’obbligo morale di essere portatore di messaggi sociali rilevanti e attuali. Quali erano i tuoi obiettivi iniziali e come hai sviluppato questo progetto? Ci sono stati cambiamenti in corso d’opera, dato il forte impianto cronachistico del film, oppure il risultato è rimasto aderente a quello che avevi in mente fin dall’inizio?
«Per me quello che stava accadendo in Colombia è stato un detonante: mi ha permesso di parlare di qualcosa che mi stava a cuore, cioè come affrontare, in un momento di difficoltà, dei rapporti recisi dalla distanza. Da questo punto di vista, la pandemia è stato uno dei momenti che ha messo per la prima volta in crisi la nostra generazione, che ha sempre goduto di una certa libertà di movimento, senza considerare la frontiera un problema. Il film nasce sicuramente come una denuncia, ma man mano che lo montavo ho guardato sempre di più verso il mio vissuto e al rapporto con le persone che prendono la parola nel film. Alla fine, credo che il risultato sia un film molto più personale rispetto a quanto mi aspettassi all’inizio, ma non poteva che essere così».