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di giulia

Da ferme persone che sostengono e vedono il cinema non solo come strumento ricreativo ma anche come forte mezzo di divulgazione, è sempre un piacere potersi confrontare con chi condivide il nostro pensiero e chi attua attivamente questo ideale. A questo proposito, abbiamo avuto l’occasione di poter parlare con CinematograFica, progetto che nasce l’8 marzo 2020 grazie un gruppo di esperte di diversi settori: Claudia Morini di Tocco (project manager and gender expert), Daniela Colamartini (film programmer) e Simona Castoldi (communication expert and social media manager). CinematograFica usa il cinema come mezzo per parlare di diritti di genere e femminismo, concentrandosi sulla disparità di accesso all’industria cinematografica per le donne, i generi non binari e le minoranze, nonché la loro rappresentazione nel mondo dell’audiovisivo. Il loro fine ultimo è quello di promuovere la sensibilizzazione sulle tematiche di genere e il contrasto della violenza attraverso proiezioni di film, ma anche laboratori e momenti di approfondimento, privilegiando produzioni indipendenti e dando risalto ai film di registe donne.

Scena dal film ‘Normal’ di Adele Tulli (Credit: Berlinale Festival)

Come presentereste al pubblico il vostro lavoro e quali sono i vostri obbiettivi primari?

Noi iniziamo e prendiamo posizione come gruppo transfemminista che comunque pensa che il cinema sia uno strumento anche politica e critica, crediamo che attraverso lo sguardo e la rappresentazione si possa problematizzare — anzi si debba problematizzare — in qualche modo la realtà, affrontando problemi diversi e principalmente soffermandoci a discutere come la visione dominante esistente schiacci e limiti la possibilità di espressione si specifiche minoranze. 

Noi non pretendiamo di essere né un festival di cinema né una rassegna culturale, noi nasciamo da un’idea che muove dal lato sociale del lavorare sulle tematiche transfemministe di genere, che poi ha trovato il proprio mezzo nel cinema. In fondo, ci siamo conosciute nel cinema: tutte siamo appassionate anche se abbiamo studiato in campi diversi. Organizziamo sia rassegne che proiezioni perché ci fa piacere che esista un momento di divulgazione aperto al pubblico generico e interessato; però, ci occupiamo anche di un cinema selezionato di un certo tipo, magari di più difficile diffusione, realizzato da registe anche di provenienze geografiche altre, realizzando laboratori per sviscerare questa serie di tematiche che ci stanno a cuore.

Il contrasto alla violenza di genere è il nostro primo obbiettivo ma si tratta di un macro obbiettivo, che poi ha svariate ripercussioni anche su altri temi nodali del presente. Infatti Mai Mute – il nostro primo e vero festival, incentrato sulla riappropriazione della voce da parte di donne, persone non binarie e minoranze storicamente private di questo diritto e del potere politico e sociale – ha analizzato una serie svariata di tematiche. Il festival ha aperto con la proiezione di Indianara (2019) di Aude Chevalier-Beaumel e Marcelo Barbosa, un documentario potente che traduce in immagini la lotta per i diritti della comunità trans ai margini della società brasiliana, accompagnato dall’intervento di Mia Tarullo e Cinzia Colosimo (portavoce e ufficio stampa di Casa Marcella, prima casa-rifugio in Italia per persone trans) e Kali Swaid (attivista, artista nel campo della moda, fotografa di festival). Una serata di occupava di musica, con la proiezione di Sister with Transistors (2020) di Lisa Rovner, con ospiti Whitemary (DJ), Alessandra Izzo (scrittrice e attrice), Luisa Santacesaria (musicologa), presenti per parlare della matrice femminile, mai abbastanza riconosciuta anche nel mondo della musica. Il terzo appuntamento del festival si è rivolto al tema del corpo femminile e della sua rappresentazione con la proiezione di una selezione di cortometraggi d’archivio e di animazione, sempre con l’intervento di esperte come Isabella Borrelli (digital strategist e attivista intersezionale), Elisa Manici (giornalista, scrittrice e fat queer activist); infine, per concludere il tutto, l’ultima serata è stata sull’importanza linguaggio e la parola, grazie al film The Poetess (2017) di Stefanie Brockhaus e Andreas Wolff e la presenza di Teresa Cinque (Autrice, attrice e monologhista), Daniela Brogi (Prof.ssa Università di Siena).

Il punto corale che accomunava tutte queste serate era fare vedere come effettivamente – come si può vedere chiaramente in Normal di Adele Tulli – le strutture che incanalano i generi dentro categorie precostituite si rispecchiano in tutto quello che viviamo sia a livello corporeo che mentale. Il cinema è il mezzo più di impatto e significativo, al di là delle culture da cui ciascuno proviene, attraverso il quale si può parlare di queste tematiche. Quindi, con questa metodologia, utilizzando un linguaggio e un contesto comune, è possibile rendersi conto della potenza del mezzo del mondo cinematografico per sradicare tutta una serie di immaginari, fondamentalmente, in questo modo, parliamo di rappresentazione. 

Scena dal film ‘Normal’ di Adele Tulli (Credit: Berlinale Festival)

In particolare, come si può presentare un film come ‘Normal’ di Adele Tulli? 

Questo film è descrivibile come un viaggio originale e audace nelle norme, negli stereotipi e nei corpi dell’Italia di oggi. Un cammino lungo i confini dell’identità di genere, che segue quelle convenzioni che chiamiamo maschile e femminile, che cerca di capire cosa sia quella che definiamo “normalità”.

Il film si incentra molto sul binarismo di genere, tema che ne sta alla sua base. Si analizza la nascita di quella che è stata la critica del movimento femminista relativa al concetto di genere, che è ancora assolutamente rilevante all’interno della nostra società. Noi viviamo in una società di “estremi vecchi” in cui il binarismo di genere è ancora molto forte ed ha una valenza sociale e politica – purtroppo – molto rilevante. In altri contesti, forse, un film così sarebbe superato, non perché ovvio ma perché ci sono Paesi che sono ad uno step successivo rispetto alle tematiche che il film di Adele Tulli ci mostra, estremamente radicate e legate al territorio italiano. Le conquiste che abbiamo visto raggiungere sono labili, quindi è sicuramente un film ricercato e non mainstream, che tratta di tematiche ancora rilevanti in Italia. Per quanto il movimento femminista sia nato anche qua negli anni ’70, serve ancora tornare all’abc del problema: in altre situazioni un film così di nicchia sarebbe già qualcosa che risuona meno nella coscienza personale della gente, ma, per il pubblico del nostro Paese forse rimane ancora un film di impatto dato il sempre vivo bisogno di sradicare il binarismo di genere dalla nostra vita.

La regista si ispira dichiaratamente a Comizi d’Amore di Pasolini, relativamente al percorso con il quale ha costruito questo documentario, partendo dal lavoro della sua tesi di dottorato, ha iniziato a viaggiare per l’Italia raccogliendo interviste, anche se, alla fine, durante il corso del lavoro ha deciso di utilizzare soprattutto immagini. Il film, quindi, risulta poco parlato e il tutto è accompagnato da una musica che talvolta contribuisce a dare un effetto di stordimento, a creare un effetto di straniamento rispetto a quello che si vede. Sicuramente il binarismo a livello culturale si rispecchia nel film con quello che viviamo abitualmente, in questo caso all’interno della società italiana, tuttavia il macrosistema patriarcale è senza dubbio radicato a livello internazionale (come dimostra il fatto che questo documentario è stato selezionato durante la Berlinale del 2019), riconfermandosi portavoce di un tema ancora estremamente attuale e del quale c’è bisogno di parlare e parlare.

Scena dal film ‘Normal’ di Adele Tulli (Credit: Berlinale Festival)
Giulia

Nouvelle Vague, arti visive e ramen istantaneo. Non mi piace parlare di me, ma mi piace parlare di film.

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