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approfondimento a cura di emma marinoni

Nel 2020, quando il Ministero della Salute ha cambiato le linee guida riguardo alla possibilità di abortire in day-hospital (rendendolo, di fatto, possibile in tutte le regioni), ho avuto una delle litigate peggiori di sempre con mia madre. Mia madre è di sinistra, tendenzialmente femminista e pro-choice: le sue riserve sulla questione erano soprattutto legate alla presunta “facilità” della procedura, che secondo lei avrebbe incoraggiato la mancanza di precauzione contraccettiva e l’aumentare del numero di aborti.[1] Partendo dal presupposto che siamo ancora lontani dalla realtà sociale in cui andare ad abortire è facile come andare dal dentista (anche se si potrebbe argomentare che esistono persone a cui anche un semplice controllo, senza otturazioni o altro, dà comunque parecchio fastidio), sia a livello pragmatico che emotivo, a nascondersi dietro questa affermazione è l’idea che l’aborto debba essere per definizione un processo punitivo – invece che preventivo, o invece di un’operazione come tante altre. 

«Getty Abortions» di Franzis Kabisch
«Getty Abortions» di Franzis Kabisch

Se guardiamo alle rappresentazioni fittizie dell’aborto – diventate man mano più popolari negli ultimi anni, vista la leggera attenuazione dell’aura di tabù intorno a esso – si dividono tendenzialmente in due tipi: nel primo, la difficoltà di ottenere l’operazione è al centro della narrazione (basti pensare a L’evenement, ambientato in Francia negli anni ’50 o a Never Rarely Sometimes Always, in cui a ostacolare la possibilità di abortire è l’età della protagonista), nel secondo, ad essere al centro è il peso emotivo della situazione, soprattutto in storie ambientate nel mondo anglofono contemporaneo come l’aborto di Cassie nella prima stagione di Euphoria o quello di Maeve nella prima stagione di Sex Education. Uno dei passi verso la normalizzazione dell’aborto nella nostra cultura e società è sicuramente costituito dalla presenza di queste rappresentazioni nella cultura mainstream – tuttavia anche esse purtroppo propongono sempre un certo tipo di pattern emotivo: qualunque persona o emozione che devia dalla norma non riesce a trovare uno spazio. 

«Getty Abortions» di Franzis Kabisch
«Getty Abortions» di Franzis Kabisch

Getty abortions di Franzis Kabisch parte proprio dal presupposto di interrogare le immagini di tutti i giorni che riguardano l’aborto per mostrare gli emotional scripts nascosti al loro interno. Le fonti della regista sono principalmente articoli online – l’unico tratto in comune tra loro è quello di parlare di aborto e di illustrarlo tramite una fotografia di una donna, tendenzialmente di spalle e chiaramente triste. Kabisch, muovendo anche dal proprio vissuto, racconta la totale mancanza di descrittori positivi di un’esperienza di aborto, e interroga il possibile potere politico delle immagini stock: se la narrazione proposta è solo una, ed è interamente costituita da rappresentazioni che evocano vergogna e senso di colpa, che effetto ha sulla nostra esperienza reale? 

«Getty Abortions» di Franzis Kabisch
«Getty Abortions» di Franzis Kabisch

Una delle prime conseguenze è che una donna bianca cisgender (che tendenzialmente vive in una casa con tante finestre) diventa l’unico soggetto possibile in questo contesto – ignorando tutte le altre realtà per cui l’aborto è un diritto necessario. Un’altra, ancora più pesante, è il fatto che questa narrazione naturalizza i concetti che portano a opinioni come quella di mia mamma, per cui abortire senza sentirsi in colpa è impossibile. Ciò ovviamente non significa che abortire sia un’esperienza facile come bere un bicchier d’acqua, dal momento che, come qualunque operazione, implica una destabilizzazione fisica non indifferente, che può variare per chiunque. Ma cosa succede dal punto di vista emotivo quando ci liberiamo da queste immagini? Possono esistere delle rappresentazioni positive, persino “gioiose”, dell’aborto? Probabilmente sì, ma riconosco che in un contesto in cui una delle potenze mondiali sceglie di togliere il diritto costituzionale all’aborto (vedi l’annullamento della sentenza Roe vs. Wade), concentrarsi sui sentimenti positivi forse non costituisce una strategia politica vincente. Se quindi almeno attualmente liberarsi da queste immagini è impossibile, possono loro invece liberarsi da noi?

«Getty Abortions» di Franzis Kabisch
«Getty Abortions» di Franzis Kabisch

Cercando negli archivi da cui proviene la maggior parte delle immagini stock prese in esame, Franz Kabisch ha scoperto che tecnicamente non esistono set denominati con i descrittori “persone che hanno un aborto”, “termine gravidanza”, “abortire”, ma anzi che tutte le immagini da lei trovate sono sotto i tag “donna triste”, “depressione”, “vergogna” etc. Esplorando i set fotografici originari, alcune delle donne che abbiamo visto solo di spalle rivelano di avere un volto – e, di conseguenza, una storia tutta loro, che non le riduce ad essere solamente l’immagine preponderante di un atto traumatico.    


[1] Nonostante la modifica del Ministero, le uniche regioni in cui ad oggi è possibile sottoporsi alla procedura in day-hospital sono Umbria e Emilia Romagna.

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