approfondimento a cura di virginia maciel da rocha
Disclaimer: ho usato la prima persona plurale.
In occasione di VUOTO, festival culturale organizzato da Ginkgomag a Pistoia e conclusosi ormai una settimana fa, ho avuto modo di vedere due film: Questa disperazione di Piero (2023) di Mattia Biondi e L’architetta Carla (2023), co-diretto da Davide Minotti e Valeria Miracapillo. Questi due lavori sono, nello specifico, due cortometraggi che condividono, in primis e dal punto di vista tecnico, molte caratteristiche. Recuperano il found footage e l’archivio – privato o aziendale che sia – per raccontare ciascuno una storia, ad esempio. Condividono l’utilizzo del voice over, anche se, forse, il verbo «raccontare» si rivela impreciso per la struttura che i due progetti hanno.

Mi piacerebbe molto potermi dilungare sull’importanza della pellicola e sul riuso delle immagini, ma probabilmente questo lavoro lo fa meglio di me la stragrande maggioranza di panel organizzati in occasione di festival dedicati al tema (tra Bologna e Roma, c’è il mare). Vorrei anche poter mettere in mostra tutto quello che ho assimilato sulle teorie elaborate da Jean Epstein sulla fotogenia (grazie al corso di Cinema, media ed estetica del paesaggio). Io per prima, a dirla tutta, sono una vittima di quello che sosteneva il cineasta riguardo il mezzo cinematografico: la pellicola non sembra migliore del digitale, di fatto lo è – anche se Epstein non poteva, per ovvi motivi, arrivare a fare un confronto. La pellicola cinematografica ha evidentemente un’attrattiva nettamente superiore rispetto a una ripresa in digitale: che sia il rifiuto dell’iperrealismo (faccio parte di una generazione che è cresciuta con tutte le evoluzioni di video caricati su YouTube e, successivamente, su VEVO in iper-ultra-alta definizione) o che sia la somiglianza con il meccanismo di funzionamento dell’occhio umano, poco importa. Mi fido di chi mi ha preceduta nell’elaborare queste teorie e ne prendo atto – ma, del resto, se anche l’ultimo videoclip di Addison Rae è girato in pellicola, come posso ignorare la portata della questione e del ritorno dell’analogico? Non farò, però, niente di tutto questo e mi limiterò ad analizzare – ma, più precisamente dare una personale chiave di lettura a questi due cortometraggi, che ho visto per la prima volta molto tempo fa e che, per qualche motivo che proverò a indagare scrivendo questo pezzo they stuck in me.

Carla e Piero, protagonisti visibili e non visibili dei due cortometraggi, sono due personaggi che resistono. «Sono orgoglioso di te perchè sei ancora capace di amare», dichiara l’intervistatore Bruno Villar al cantautore Piero Ciampi e in quell’amare c’è racchiuso un generico sentimento, controcorrente e contrastante a quello dell’informe massa dilagante (o degli «uomini che non si voltano»?), che continua a camminare come sonnambula, se vogliamo dirlo parafrasando Sbarbaro. Piero dà prova della sua resistenza, portando avanti questo suo gesto disperato – che forse è proprio quello del vivere, di affermare la vita nonostante tutto – mentre il tempo scorre inesorabile. Una spiaggia, una veduta di paesaggio, il soggetto eterno di un dipinto romantico, scorre davanti agli occhi dello spettatore, mentre le abitudini di tutti gli astanti continuano a reiterarsi nel corso di una giornata, nel corso dell’esistenza. Tutto è fisso e mobile al tempo stesso, le onde si muovono catturate e lasciate libere dalla pellicola, producono un suono lontano, distante, sovrastato dall’intervista-confessione. Lo spettatore non legge, non c’è sovrimpressione: è tutto suggerito e abbozzato – in fondo, di che cosa sta parlando Piero? «È per questo che noi daremo un giorno o l’altro una mazzata a chi non sa amare». A chi non sa amare, si conforma, a chi non si fa domande.

Mentre Piero, da una parte, risponde e dà la propria interpretazione alle pressanti (ma profonde) questioni del suo intervistatore, dall’altra, Carla cerca di liberarsi dalla morsa di un lavoro opprimente. Nella riflessione che Carla porta avanti, sulla scia di una ragazza nota che l’ha preceduta e le cui caratteristiche erano state tratteggiate da Elio Pagliarani, non c’è spazio per il mare, per una veduta di un ambiente aperto. «C’è dell’altro, oltre alle mura di questo antro?» sono le parole con cui entra in scena la protagonista e no, non sembra esserci altro, a detta degli ingegneri che, come automi, lavorano nel cantiere. La voce di Carla, limpida e non soggetta a distorsioni sonore – al contrario di quella del corpo di ingegneri che, tramite ripetizioni ed echi costituisce un incessante gioco di rimandi e riverberi – inizia a porsi interrogativi che vanno al di là del lavoro meccanico. In un certo senso, la voce di Carla ancora incorrotta, è lo strumento che dimostra che l’architetta-ragazza non è stata toccata da quella mentalità tardo-capitalistica che abbiamo conosciuto con il secondo dopoguerra e di cui non riusciamo più a liberarci.

La ragazza Carla del poemetto di Pagliarani viveva in un mondo in cui ancora non esistevano né alternanza scuola-lavoro, né tirocini non retribuiti e chi più ne ha più ne metta. Certo, Carla viveva in un mondo orribile per una (pressoché infinita) serie di aspetti, diranno i miei piccoli lettori – ma, senza troppo peccare di autoreferenzialità, forse possiamo dire che oggi tutti noi siamo un po’ Carla. Lavorare per consumare, lavorare per comprare, è ormai una situazione in cui la mia generazione è nata e cresciuta e di questo, purtroppo, non ce ne liberiamo. Il fatto, però, che lavorare all’interno dell’ambito culturale stia diventando sempre più simile a una catena di montaggio, forse questo è qualcosa con cui sono dovuta scendere a patti nel corso della mia carriera prima accademica e poi lavorativa.

L’atto di resistenza dell’architetta Carla (pongo molta enfasi sul termine «architetta», dato che vivo in un Paese in cui la Presidente del Consiglio vuole farsi chiamare il Presidente del Consiglio e la direttrice d’orchestra preferisce rispondere al titolo di direttore) è quello di immaginare un mondo alternativo, che non sia dominato dalle rigide e disumanizzanti regole economiche. Carla parla di «astratti furori», facendo riferimento al lavoro degli ingegneri, con un ossimoro più vivo che mai: nonostante abbia a che fare con una squadra che misura e lavora, di fatto, con numeri e unità su base quotidiana, nessuno arriva ad ammirare la realizzazione concreta di quanto è stato costruito o prodotto. La protagonista arriva a suggerire, forse in maniera quasi epicurea, che tutto quello di cui abbiamo bisogno è già là fuori, è già esistente in natura: gli alberi, il cielo, niente può sostituirli, neanche la più alta e imponente delle costruzioni umane. Ma Carla viene additata come pazza da chi lavora intorno a lei, come se proponesse di andare sulla Luna.
«È per altri e altre che progettiamo: corpi che vivono, corpi che amano», dichiara Carla, adesso, però, sottovoce e con cautela. Non ha più il tono di voce squillante e curioso che aveva a inizio corto, qualcuno ha provato a silenziarla, ma non ci è riuscito. La sua voce si è affievolita, ma non le sue idee. Il senso del suo lavoro, come quello di Piero, è rivolto a chi ama, in forma generica e terribilmente specifica al tempo stesso: a chi, comunque, continua a farsi domande e non arriva a perdere un orizzonte culturale, nonostante il mondo in cui viviamo ci provi con tutte le sue forze. Pagliarani scriveva che «un film di Jean Gabin può dire il vero»: Gabin non c’è più – ma questi due film, comunque, per fortuna nostra che li guardiamo, continuano a farlo.