Skip to main content

recensione a cura di emma marinoni

Le streghe – reali o fittizie – sono senza dubbio ancora oggi uno dei pochi simboli fortemente legati al genere femminile. In Feeding the Monster: Why Horror as a Hold on Us, la critica cinematografica Anna Bogutskaya analizza il rapporto tra gli spettatori e il genere horror, interrogando la fascinazione della nostra cultura per esso. Dopo aver esplorato diverse aree tematiche ed emotive (ad esempio, la paura, il dolore o la fame) il libro si conclude con una riflessione sul potere e sulle sue rappresentazioni all’interno del genere – e quindi, di conseguenza, che forma “mostruosa” esso decide di prendere. Il punto dell’autrice è che nella contemporaneità i mostri tradizionali e archetipici dei film horror come la creatura di Frankenstein, i vampiri o gli zombie non fanno più paura: la loro costante ripresa, rimediazione e meme-ficazione ha privato questi simboli del potere originario che avevano sugli spettatori.  Secondo Bogutskaya, anche la figura della strega ha subito questa metamorfosi – pur mantenendo la sua connotazione femminile: vuoi tramite la rivendicazione del simbolo da parte del movimento femminista, vuoi con le streghe su Etsy che offrono maledizioni contro gli ex a pagamento o le centinaia di live divinatorie su TikTok. Definirsi una strega oggi non ha lo stesso impatto rivoluzionario di cinquanta o cinquecento anni fa – e per certi versi è anche giusto così: del resto, è bello poterlo fare senza rischiare la propria vita. 

«Witches» (2024) di Elizabeth Sankey (Credits: MUBI)

Elizabeth Sankey è nota nell’ambiente del videosaggio per il suo documentario Romantic Comedy (2019), all’interno del quale analizza e interroga il genere della commedia romantica e il suo rapporto con la società. La forma di Romantic Comedy è quella che tenderemmo ad associare ad un videosaggio standard: un montaggio di diversi spezzoni di film accompagnato da un voiceover – alternando la voce della regista a quella di altre persone intervistate sullo stesso tema. Anche Witches condivide queste caratteristiche formali, almeno all’inizio: sentiamo descrivere da Stankey l’interesse che provava per le streghe durante la sua infanzia – e la sua graduale scomparsa – mentre osserviamo alcune tra le immagini più celebri di streghe nella nostra memoria collettiva. Tuttavia, superata questa breve introduzione, lo spettatore si ritrova davanti ad un documentario in realtà quasi esclusivamente composto da interviste. 

«Witches» di Elizabeth Sankey
«Witches» (2024) di Elizabeth Sankey (Credits: MUBI)

La continuazione stilistica con Romantic Comedy sembra quasi una trappola, una costruzione formale necessaria per proteggere l’argomento di cui la regista vuole davvero parlare. Elizabeth passa da essere una voce senza corpo ad una persona in carne ed ossa: in una serie di ambientazioni “streghesche”, l’autrice descrivere le sue prime giornate dopo la nascita del suo primo figlio, e il successivo rapido deterioramento della sua salute mentale. Dopo neanche un mese post-parto, Elizabeth si è ritrovata in una clinica psichiatrica, all’interno di una di quelle che nel Regno Unito sono chiamate “Mother and Baby units”, specifiche per i casi più gravi di depressione post-parto[1]. A intervallare il suo racconto ci sono interventi di amiche, compagne, ed esperte del settore: quasi tutte hanno vissuto un’esperienza simile a quella di Elizabeth, chi più chi meno grave, e raccontano del terrore di rimanere nella stessa stanza da sole con il proprio figlio, della loro insonnia cronica, dei loro pensieri intrusivi e violenti, talvolta suicidi.

«Witches» di Elizabeth Sankey
«Witches» (2024) di Elizabeth Sankey (Credits: MUBI)

Queste storie sono terrificanti – e a renderle tali è il fatto che sono assolutamente vere, non sono state scritte o dirette da nessuno. La prima caratteristica ad accomunare le persone intervistate, oltre al fatto di essere madri, è una grandissima solitudine: ciò non significa che nessuna di loro si trovasse in una relazione o fosse completamente priva di un sistema di supporto (familiare o meno), ma piuttosto che nessuna avesse uno spazio o un punto di riferimento per condividere questo tipo di pensieri, completamente impossibili da associare ad una figura “materna”. Sebbene la depressione post-partum sia socialmente riconosciuta, ciò non significa che essa venga presa seriamente – a sottolineare questo fatto è anche come venga denominata di solito in inglese, ovvero “baby blues”, privando il termine di una connotazione diagnostica o “seria”. La maggior parte delle donne intervistate fanno parte dell’unica comunità trovata dalla regista in quei momenti di crisi: un gruppo Whatsapp denominato “Motherly Love”, in cui neo-mamme e non condividevano i pensieri che non potevano esprimere da nessun altra parte. 

«Witches» di Elizabeth Sankey
«Witches» (2024) di Elizabeth Sankey (Credits: MUBI)

Passando tra l’ansia e la depressione, Witches esplora instanze ancora più serie, in particolare quella della psicosi post-partum. Sconosciuta alla maggior parte delle persone, la psicosi post-partum è considerata un’emergenza psichiatrica che mette in situazione di alto rischio sia la persona che ha partorito che l’infante: tuttavia, la ricerca è ancora parecchio indietro e le sue cause non sono state ancora scoperte[2]. Come descrive Catherine Cho, autrice di Inferno: a Memoir of Motherhood and Madness e intervistata da Sankey, la psicosi si manifesta come una quasi totale separazione dal mondo reale: Catherine vedeva il diavolo negli occhi di suo figlio e demoni da tutte le parti, a tratti si convinceva di essere in purgatorio e di doverne uscire a tutti i costi.

«Witches» (2024) di Elizabeth Sankey (Credits: MUBI)

Leggendo le confessioni volontarie di donne bruciate per stregoneria nel XV e XVI secolo, in cui le condannate affermavano di aver visto il diavolo, di aver sentito delle voci, di essere state “tentate” di uccidere i propri figli, Sankey dichiara di aver provato un senso di riconoscimento simile soltanto a quello provato una volta entrata in “Motherly Love”[3]. Elizabeth e tante altre intervistate confessano che avrebbero detto le stesse cose – anche se ciò avesse significato andare incontro a morte certa: difatti, avere pensieri che la società denomina come anomali e mostruosi spesso le ha portate a considerare il suicidio come unica soluzione possibile, rendendo la loro situazione non particolarmente diversa da quella delle donne del Seicento.

«Witches» di Elizabeth Sankey
«Witches» (2024) di Elizabeth Sankey (Credits: MUBI)

Guardando Witches non ho provato altro che rabbia e stupore: rabbia per quanto ancora oggi una determinata costruzione di “madre” influenzi incredibilmente la vita delle persone socializzate come donne, stupore perché non sapevo niente di patologie più gravi della depressione post-parto – soprattutto essendo una persona che sta attualmente frequentando una laurea magistrale in studi di genere e delle donne. Quelli che ho provato sono sentimenti negativi, ma ciò non significa che non siano costruttivi – e questo mi porta a sperare che vengano condivisi da chiunque si imbatta in questo documentario. 


[1] Nel caso ve lo steste chiedendo, in Italia non esistono soluzioni di questo tipo all’interno della sanità pubblica. 

[2] Di nuovo, in caso ve lo steste chiedendo, su Google Scholar attualmente ci sono solo due saggi accademici sull’argomento in lingua italiana. 

[3] Queste confessioni sono definite “volontarie” dal momento che sono state ottenute senza l’utilizzo di nessuna tortura – al contrario di molte altre confessioni di stregoneria – ma ciò non rappresenta una garanzia.

Leave a Reply