di giulia
Ci sono alcune esperienze nella vita che possiamo quasi considerare universali. Il combattere la sensazione del tempo che non passa mai durante le vacanze estive; il mettersi la schiuma del sapone sulla faccia per creare una finta barba; il giocare con le lucertole finendo per ferirle, non per cattiveria, ma perché sei semplicemente curioso di scoprire la natura. Queste sono tutte cose che io da bambina ho fatto, e così come me le ha fatte anche la protagonista di 20.000 specie di api, lungometraggio debutto di Estibaliz Urresola Solaguren. Tuttavia, nonostante la tangibile presenza di realtà comuni nelle nostre vite, questo film ci ricorda di come ognuno di noi intraprende la strada verso la conoscenza di sé stesso in modi (e tempi) completamente diversi.
Il fulcro della storia gira intorno alla vita di una bambina di otto anni (interpretata in modo brillante da Sofía Otero, vincitrice dell’Orso d’argento come migliore attrice protagonista alla scorsa Berlinale) che, nel corso di un’estate trascorsa con la famiglia della madre nei Paesi Baschi, inizia a prendere consapevolezza su un aspetto della sua vita che aveva riconosciuto da tempo, ma che non aveva mai esternato: il suo nome è Lucía e chi nella sua famiglia non l’ha ancora capito, continuando a riferirsi a lei come maschio, la sta ferendo. Rendersi conto di non sentirsi a proprio agio con il corpo con cui siamo nati è un processo difficile per chiunque, indipendentemente dall’età e dalla sensibilità della persona. Nondimeno, farlo quando l’unica realtà che hai intorno a te è quella della tua famiglia, inserita all’interno di un contesto provinciale dove tutti conoscono la storia di tutti, diventa ancora più complicato.
Capiamo che Lucía si sente “diversa” dai primi minuti del film. Si lamenta che i fratelli la chiamano Cocó, appellativo che pensiamo lei stessa avesse inizialmente scelto per evitare di essere chiamata con il suo nome dato alla nascita, ma che non le appartiene realmente. Lucía non si vuole tagliare i capelli, fatto che disturba particolarmente la nonna, dato che le signore del paese continuano a dirle che “suo nipote” è “bellissima”. Lucía non vuole andare in piscina con la famiglia, perché questo comporterebbe dover tesserarsi scrivendo su un cartellino quel nome con cui tutti ancora la chiamano ed essere indirizzata nello spogliatoio dei maschi. Nel frattempo, anche la madre di Lucía, Ane (Patricia López Arnaiz), è alle prese – in un altro senso – con il trovare sé stessa. Un’aspirante scultrice, perennemente nell’ombra di un padre defunto che a sua volta era stato un artista, fatica a trovare l’ispirazione per una nuova opera da presentare per la candidatura a un lavoro da professoressa in un’Accademia d’arte. Ane è una madre sensibile che viene accusata di lasciare i propri figli troppo liberi senza essere in grado di sopportarne le conseguenze. Lei ha compreso da tempo che Lucía è a disagio con il mondo, ma ammetterlo a sé stessa è un passo troppo grande, che sull’apice di un matrimonio allo sbando e una carriera mai in iniziata, fatica a compiere.
La famiglia vive in Francia, ma torna momentaneamente al borgo originario della madre nei Paesi Baschi così che lei possa usare lo studio del padre per lavorare, lontana dal marito che decide di rimanere a casa. Lì tutto sembra viaggiare con un tempo diverso, e questa fissità porterà Lucía ad avere a che fare con nuovi pensieri e preoccupazioni. La sorella maggiore non la considera molto, il fratellino non fa altro che dire quanto gli manchi il padre, la nonna risponde al suo visibile malessere con frasi come “Dio ci ha fatti perfetti”, bloccando in partenza qualsiasi suo tentativo di esternare quello che prova. Lucía vivrà gli unici momenti di pace in questa sua vacanza estiva grazie alla prozia apicoltrice Lourdes (Ane Gabarain), che giocherà, insieme alle api, un ruolo fondamentale nel viaggio di scoperta della bambina. Per la prima volta una persona adulta la ascolta, cerca di capirla e non mostra neanche un minimo segno di fare giudicante quando lei parla di sé stessa al femminile. Finalmente Lucía ride, corre, scherza, fa amicizia con la nipote di un altro apicoltore che la considera una femmina e che non cambierà idea neanche quando decideranno di scambiarsi il costume, esclamando in modo innocente che anche nella sua classe c’è “un bambino con la vagina”, facendole sorridere entrambe.
Molte delle critiche che ho letto nei confronti di 20.000 specie di api sono legate all’età della protagonista e il tema affrontato. La regista viene accusata di fare propaganda di basso livello usando i bambini come strumento di indottrinamento “forzato”. Io personalmente trovo triste e anche offensivo sminuire la portata del tema a mero strumento politico, semplicemente perché i temi di genere sono affrontati attraverso la sensibilità di una persona di otto anni. Ci ostiniamo a vedere i bambini come esseri che non possono comprendere temi di notevole rilevanza, quando in realtà la loro sensibilità è molto più pura e realistica della nostra, ancora non intaccata da variabili che influenzano i nostri giudizi nel decidere cosa sia normativo o meno. Realizzato 12 anni dopo Tomboy di Céline Sciamma, questo film è chiara dimostrazione che, nonostante la presenza di piccoli passi in avanti fatti dalla collettività su alcuni aspetti dell’approcciarsi a tematiche di genere, la nostra società è ancora incatena ai più tradizionali pregiudizi.
In generale, noto sempre con dispiacere come sia ricorrente che, quando una persona decide di sfruttare i propri mezzi per affrontare tematiche della società moderna, venga di conseguenza immediatamente accusata di fare strumentalizzazione. Se troppo dichiarati e di impatto, i film su storie trans vengono incolpati di essere esagerati e di imporre forzatamente ideali; se delicati e sensibili, invece, vengono relegati a tentativo di prendere una posizione politica buonista senza spina dorsale. Io non ho mai provato quello che Lucía prova in questo film; tuttavia, ho percepito l’autenticità della sua esperienza rispetto alle realtà di base della vita e all’incertezza che sperimentiamo da bambini. Come spesso capita a molti film sotto il genere di coming-of-age, 20.000 specie di api a tratti effettivamente si perde fra le sottotrame e descrizioni di donne che faticano a sentirsi riconosciute. Il film però rimane fedele a sé stesso dall’inizio alla fine, rimarcando sull’analogia delle api che, come noi, affrontano la vita seguendo varie fasi.
“Come mai tu sai chi sei e io no?” chiede piangendo Lucía al fratello, quando è ormai chiaro a tutti cosa sta passando nella mente della bambina. 20.000 specie di api non pretende di farti immedesimare completamente nella trama, questa è solo la storia di vita di una bambina, ma con delicatezza e sincerità racconta una realtà, con la speranza di passare allo spettatore anche solo un briciolo di quel senso di incompletezza con il quale, le persone come Lucía, lottano ogni giorno.