di giulia
Quale miglior momento per vedere un film distopico, ambientato nell’unico palazzo rimasto in piedi a Seul dopo un disastroso terremoto che ha distrutto il paese, se non su un volo di tredici ore di ritorno in Europa dalla capitale coreana? Siamo sul mio primo viaggio intercontinentale, nonché mio primo volo su un aereo fornito di schermi nel retro dei sedili. Che emozione, il sogno di quando ero bambina. Sono rimasta piacevolmente sorpresa dall’ampia scelta di pellicole disponibili, notando che la maggior parte delle persone, a quanto pare, decide di sfruttare il tempo in situazioni del genere per recuperare le grandi produzioni hollywoodiane rimandate da tempo (cfr. il signore seduto alla mia destra che ha deciso di vedere, in ordine: Elvis, Blade Runner 2049, Wonka e Chicago). Essendo però io in pari con la visione di tutti questi titoli, ho quindi pensato: ma sì, perché non vedere un film completamente incentrato sulla città che ho appena lasciato? Faccio quindi partire Concrete Utopia di Um Tae-hwa.

Non so molto al riguardo. A quanto pare di tratta del film che la Corea ha presentato come candidato all’edizione degli Oscar di quest’anno, non ottenendo grandi risultati. La mia passione per il cinema coreano (e per i drama di non sempre incredibile qualità) fa sì che riconosca in un batter d’occhio i tre protagonisti, Park Bo-young, Park Seo-joon e Lee Byung-hun, alcuni tra i volti forse più famosi anche al di fuori degli esperti del caso (sì, bravi, esatto: compaiono in Parasite e Squid Game). Il film inizia con immagini di archivio che raccontato del momento in cui in Corea ci fu un “boom” dell’edilizia cittadina, con l’elevata e rapida costruzione di altissimi grattacieli, realizzati con il fine di mettere a disposizione il maggior numero di case per la popolazione.

Questa mia vacanza in Corea mi ha fatto scoprire di più della storia di un paese estremamente nuovo, dove fino alla fine degli anni ’50 non esisteva praticamente niente di quello che è possibile oggi vedere camminando per le strade di Seul. Ma la cosa che più mi ha scioccata è stata la vista della città dall’apice della Namsan Seoul Tower, uno dei punti panoramici più alti e iconici della città. Un panorama diverso da quello che io abbia mai visto nelle grandi città europee, che parte da piccole costruzioni, case, palazzi dell’era di Joseon, parchi, grandi realizzazioni architettoniche di design, ma che però poi si perde, buttando l’occhio in lontananza, in infinite distese di grattacieli bianchi numerati tutti, e vi giuro tutti, uguali. Non è qualcosa che di descrive bene a parole, ma diciamo che il carattere distopico di Concrete Utopia parte da un immaginario che già di suo ha dei buoni spunti di partenza.

La storia, basata sulla seconda parte del webtoon Pleasant Outcast di Kim Soongn-yun, inizia subito a disastro naturale già accaduto. Seul è distrutta e nessuno sa fino a dove arrivino le rovine causate da questo folle terremoto. Il palazzo dove vivono Kim Min-seong (Park Seo-joon) e sua moglie Joo Myeong-hwa (Park Bo-young) sembra essere l’unico baluardo di salvezza, ancora in piedi in mezzo a tanta distruzione. Inoltre, le bassissime temperature dell’inverno coreano non aiutano, portando così i sopravvissuti della zona a cercare rifugio nella costruzione. Ma le provviste scarseggiano presto e l’animo dei veri inquilini degli Hwang Gung Apartments, nome del complesso, inizia a farsi irrequieto. Nasce così una lotta che vede Kim Yeong-tak, misterioso e inquietante uomo, che nessuno dei vicini sembra conoscere, a essere eletto come capo dei “legittimi proprietari” della struttura. Gli “estranei” vengono così cacciati e ben presto l’acquisizione di troppo potere da parte di Yeong-tak – e della sia squadra speciale, di cui fa parte anche il nostro Min-seong – darà vita a complicazioni. Wow, chi l’avrebbe ma detto.

Stiamo quindi parlando di un film che potrebbe iscriversi in un genere ben affermato, con una trama che è originale ma che comunque fa leva su aspetti ricorrenti tipici delle storie post-apocalittiche, che vedono gruppi di persone comuni diventare grandi sopravvissuti, o addirittura eroi, in un batter d’occhio. La cosa diversa e più specifica del cinema coreano è la grande drammaticità delle prove attoriali. I cliché sono all’ordine del giorno, i pianti ingigantiti, le urla amplificate e tutte le emozioni sono fatte passare al massimo, costantemente. Queste sono caratteristiche che si ritrovano anche nelle più semplici delle commedie romantiche, figuriamoci in un film dove gli umani vengono messi gli uni contro gli altri in una vera e propria lotta per la vita. Tutto ciò per dire, aspettatevi grandi urla, molto sangue, pianti disperati. È il suo bello (secondo me). C’è sempre qualcosa di davvero interessante su come i film coreani rappresentino la violenza, a volte anche ben più esagerata di quella che vediamo nelle pellicole americane, tuttavia, stranamente, risulta sempre così studiata che l’effetto percepito sullo spettatore è meno pesante.

Se devo essere sincera, Concrete Utopia di Um Tae-hwa non è che mi sia piaciuto coì tanto. Ci sono vari aspetti che ho percepito un po’ scontati e, in linea generale, dopo un grande climax ascendente di tensione, il finale risulta un po’ affrettato – anche se ho molto apprezzo il tentativo di rimanere fedeli alla verosimilità della storia (nonostante il paradosso di partenza su cui si basa il tutto). Insomma, una visione divertente che per due ore mi ha fatto dimenticare di trovarmi a 10000 metri di altezza e che forse, nonostante i difetti, si meriterebbe la stessa attenzione (e distribuzione) di molti di quei film americani (e discutibili) che possiamo trovare nella sezione “futuri distopici” di Netflix. Così, per dire eh.