di marco
Ho avuto la fortuna di vedere May December, ultima fatica di Todd Haynes, alla sessantasettesima edizione del BFI London Film Festival. Il film era presente nella sezione Galas in cui sono proiettate numerose anteprime dei principali titoli dai festival internazionali, come questo e Killers of the Flower Moon per Cannes o l’ultimo Leone d’oro Poor Things! per Venezia. Ero incuriosito da May December per svariati motivi: in primis, considero Todd Haynes uno degli autori più significativi degli ultimi trent’anni, specialmente per come spesso inscena nei suoi film il rapporto tra artificio e verità e tra i ruoli di genere. Inoltre, aspettavo le performance di due attrici che ho sempre ammirato come Natalie Portman e Julianne Moore ed ero rimasto un po’ perplesso da alcuni pareri a Cannes, che parlavano di un film “scomodo” e che non mette a suo agio gli spettatori.
Ci accorgiamo subito di questo durante le prime scene. I titoli di testa si aprono sulle note di un riarrangiamento della colonna sonora di The Go Between di Joseph Losey: c’è una cornice teatrale, con il sipario prima chiuso e poi aperto, che risulta una vera e propria dichiarazione di intenti dal punto di vista linguistico. Poco dopo i titoli di testa, assistiamo ai preparativi per un barbecue in una villa vicino al mare a Savannah, in Georgia, per accogliere Elizabeth, una famosa attrice (Natalie Portman). A sorprendere lo spettatore, principalmente, è la differenza di età dei due padroni di casa Gracie (Julianne Moore) e Charles (Joe Yoo), oltre alla deriva quasi horror della colonna sonora non appena quest’ultima si accorge che in frigo non ci sono abbastanza wurstel per preparare gli hot dog.
Queste atmosfere quasi grottesche sono ricorrenti nel film e servono sia a plasmarlo come dark comedy, genere in cui Haynes si cimenta per la prima volta, che aumentarne lo straniamento per accentuare la meta-rappresentazione al centro dell’opera, come già lasciava intuire l’incipit. Infatti, Elizabeth deve interpretare Gracie in un film: quest’ultima fu oggetto di uno scandalo più di un ventennio addietro, dal momento che aveva iniziato una relazione con Charles quando lui era ancora tredicenne e lei aveva già trentasei anni (l’età che hanno sia Elizabeth che Charles nel presente). Gracie, incinta di Charles, fu accusata di essere una sex offender e finì in prigione, dove partorì una figlia a cui seguirono due gemelli: prima del film con Elizabeth, sulla vicenda era stata realizzata una fiction per la televisione di dubbia qualità. Il titolo May December fa riferimento a un’espressione utilizzata spesso per indicare una notevole differenza in una relazione, mentre la sceneggiatrice Samy Burch ha dichiarato che il soggetto, da lei scritto, è basato sulla storia di Mary Kay Letourneau che ha largamente ispirato il personaggio di Gracie.
Qui appare palese uno dei principali intenti del film: vagliare la tabloid culture tipica degli anni ’90 e la sua transizione nei biopic true crime che stanno caratterizzando il mondo odierno. Haynes, che non è nuovo ad inserire gli scandali e i rotocalchi nelle proprie opere (si pensi al suo esordio Poison o a Velvet Goldmine), utilizza questo espediente per occuparsi del complesso tema della rappresentazione mediatica e cinematografica. In una delle prime scene, Elizabeth vede Gracie sfogliando le immagini sui rotocalchi dell’epoca, mentre la TV trasmette una pubblicità di un prodotto per il viso di cui l’attrice è testimonial (abbastanza simile al famoso ad di Natalie Portman per Miss Dior): si tratta di immagini cristallizzate, ferme, che potrebbero essere sufficienti a catturare l’identità di una persona e permetterne un’adeguata rappresentazione.
Tuttavia, sia la realtà che il film stesso sono molto più stratificati e complessi di quanto appaiono, ed è qui che risiede uno dei suoi principali meriti dell’opera. Elizabeth prova per tutto il film a investigare sul passato di Gracie per trovare una motivazione nella vicenda e poter rendere maggior giustizia al personaggio, ma è gradualmente impossibilitata a trovare una soluzione e finisce travolta in un vortice senza fine di verità e menzogna, colpa e ragione. In questo senso, sono indicativi soprattutto due passaggi: la drammatizzazione della lettera ricevuta da Charles e il coito simulato/masturbazione nel retro del negozio di animali. Quest’ultima parte non dovrebbe sorprendere, considerando che il regista ha sempre posto l’accento sull’eroticismo e sulla sessualità nel contemporaneo.
Haynes e Burch rappresentano nel film tre differenti ricerche compiute dai personaggi principali: oltre a quella di Elizabeth, anche Gracie e Charles devono scoprire degli aspetti su sé e sugli altri. Il personaggio interpretato da Julianne Moore (che sforna un paio di pianti isterici, ormai diventati specialità della casa) tenta di depistare lo scandalo e mascherare la propria fragilità, immaturità e bisogno di affetto attraverso la pasticceria e l’apparente buon rapporto col vicinato; Charles si trova invece sopraffatto dal diploma dei gemelli e la loro conseguente partenza dal nido domestico. Il suo character arc è forse il più sbalorditivo: adolescente diventato uomo troppo presto e probabile vittima dell’abuso di Gracie, alleva farfalle per colmare un vuoto che si porta dentro da tanto tempo. Queste sono una metafora di ciò che gli manca e gli è mancato: il bozzolo come periodo di crescita prima dell’età adulta, in primis, ma anche la libertà a cui Charles ha fatto a meno per soddisfare i bisogni (affettivi, prima ancora che sessuali) di Gracie. Anche lo spettatore effettua una ricerca, cercando di destreggiarsi tra questi tre personaggi, per finire destabilizzato come Elizabeth: quando si arriva a pensare ad uno specifico trauma come causa dei bisogni di Gracie (personalità ansiosa e dipendente, sicuramente da cluster C) la prospettiva si ribalta, e non è mai del tutto chiaro quanto i personaggi siano vittimi e carnefici anche di loro stessi.
Oltre ai rapporti tra finzione e realtà e menzogna e verità (e la tipica analisi di una famiglia borghese in Haynes), come già accennato l’altro principale selling point di May December è l’immedesimazione attoriale. È passato poco meno di un decennio dall’ultima volta in cui un personaggio di Julianne Moore doveva farsi interpretare da un’attrice, ma più che a Cronenberg e al suo Maps to the stars Haynes si rifà ad altri maestri. In un’atmosfera al solito molto sirkiana, non sono rari i momenti in cui Portman e Moore si trovano l’una accanto all’altra di fronte a specchi, come in una delle immagini promozionali circolate maggiormente sul web dopo la première a Cannes.
Guardando questo frame viene spontaneo pensare alla simbiosi, ai rapporti di potere e alla sostituzione tra le protagoniste di Persona di Bergman, specialmente perché Elizabeth era il nome del personaggio interpretato da Liv Ullman. Il finale potrebbe suggerire che il mutismo e l’appiattimento emotivo potrebbero toccare anche l’attrice interpretata da Natalie Portman, trovatasi più confusa alla fine del soggiorno in Georgia rispetto a quando era arrivata.
Non sorprendetevi se a fine visione vi sentirete come Elizabeth: per complessità e rimandi, tuttavia, l’opera risulta una delle più pregevoli nella (già notevole) filmografia di Haynes. Si vocifera che in Italia uscirà in sala a gennaio 2024, se non prima on demand su Netflix: mettetelo in lista senza troppe aspettative, non ve ne pentirete.