approfondimento a cura di lorenzo santini
Ebbene sì, sono passati trent’anni dall’uscita statunitense di In viaggio con Pippo – A Goofy Movie (1995) di Kevin Lima, film Disney che all’epoca passò piuttosto inosservato nel via vai di successi portati dal cosiddetto Rinascimento Disneyano – su tutti il colossale Il re leone, di un anno precedente – ma che col tempo è diventato un vero e proprio cult. Amato da una nicchia che, a ben vedere, tanto ristretta in fondo non è, spesso ricordato come un classico pur non facendo parte del canone ufficiale, occupa un posto speciale nel cuore di milioni di spettatori. Proprio in questi giorni, su Disney+, è stato rilasciato il prezioso documentario Not Just A Goof (diretto da Eric Kimelton e Christopher Ninness) che, attraverso interviste al cast e l’utilizzo di filmati d’archivio finora inediti, ne racconta la genesi, la lavorazione e tutti i retroscena di questa pellicola tanto bizzarra quanto affascinante che sono stato spinto a riguardare, a distanza di molti anni.

Sono abbastanza sicuro di possederne una copia registrata casalingamente su una VHS da una messa in onda sulle reti Mediaset, che da piccolo non ho consumato come altre, tra riavvolgimenti e visioni ripetute. Ho sempre avuto un debole per il personaggio di Pippo, ma devo ammetterlo: questo film ricordo non avermi poi particolarmente colpito da bambino, se non per l’esagerazione di certe sequenze (come il numero canoro in autostrada o l’adrenalinico momento nel Grand Canyon). I miei ricordi, tuttavia, erano ormai abbastanza sbiaditi e necessitavano di essere rimessi un po’ a fuoco, sotto uno sguardo sicuramente diverso da quello del me dell’epoca. Difatti, riguardandolo, trovo In viaggio con Pippo un’opera brillante sotto molti punti di vista, che ha ben poco da invidiare ai grandi classici.

Il suo punto di forza principale risiede proprio nella rappresentazione del personaggio di richiamo: Pippo, per l’appunto. L’amico stralunato e pasticcione di Topolino e Paperino, qui coprotagonista per la prima volta di un lungometraggio insieme al figlio Max. Dalla sua prima apparizione nel 1932 come spettatore barbuto con occhiali in Mickey’s Revue, il personaggio ha attraversato decenni di metamorfosi, diventando un’eccellente spalla comica, l’imbranato modello d’insegnante nella celebre serie di corti How to Play degli anni ’40 e ’50, dove illustrava con comicità surreale le più svariate attività della vita – dallo sci al golf, dalla pesca al baseball – e l’alter ego George Geef, un personaggio maggiormente umanizzato e satirico (privato delle lunghe orecchie penzolanti), stereotipo dell’uomo medio americano, padre di famiglia nevrotico alle prese con le piccole-grandi sfide della quotidianità: il traffico, il lavoro d’ufficio, l’educazione del figlio. Vena domestica che anticipa in un certo senso, di diversi anni, l’approccio più “familiare” che verrà poi esplorato nella serie Ecco Pippo! (Goof Troop, 1992), dove il personaggio riacquista i suoi tratti più classici, diventa padre single del giovane Max e si trasferisce in periferia accanto al vecchio amico Pietro Gambadilegno. Proprio da questa serie il film prende le mosse, non abbandonando le gag slapstick e le battute da sitcom, ma scegliendo un tono più maturo e cinematografico, spostando il focus dall’ambientazione domestica a un vero e proprio road movie musicale-affettivo attraverso gli States.

In viaggio con Pippo racconta il viaggio – fisico e simbolico – di un padre e di un figlio, ove quest’ultimo è un adolescente che cerca disperatamente di affermare la propria identità e il primo un genitore disfunzionale e malinconico che vorrebbe cercare di trattenerlo ancora, quanto più possibile, vicino a sé — la rappresentazione del tontarello spilungone amico di Topolino acquisisce sorprendente profondità. Pippo è sì ingenuo, sempre appassionato di pesca dai tempi di Goofy and Wilbur (1939), ma non troppo più abile nel praticarla che in How to Fish (1942), un bonaccione dal sorriso largo, ma anche segnato: complessato dagli insegnamenti del proprio padre, condizionato dai giudizi di Pietro, sia comprimario quanto antagonista di Max, che ha il terrore di diventare come lui (emblematica la sequenza onirica di trasformazione che apre il film). E forse questo suo lato estremamente fragile e complesso, in età infantile, io faticavo a capirlo ed accettarlo, e mi portava a non amare quanto altre pellicole animate l’opera di Lima (regista pure dello splendido Tarzan Disney). Parteggiavo esclusivamente per Max, coi suoi occhiali veloci (prima che divenissero una tendenza nelle vetrine di lusso) e il suo carisma nel calcare i palcoscenici, non capendo come il mio tanto simpatizzato potesse comportarsi così, divertendomi solo in modo centellinato.

Ma rivedendolo oggi, mi rendo conto che è proprio la stratificazione emotiva di In viaggio con Pippo – tutt’altro che scontata per un film d’animazione di questo tipo – a renderlo un piccolo gioiello da riscoprire. Oltre a conservare un’ottima qualità nelle animazioni pur essendo considerabile un film low budget per gli standard Disney, è un’opera che parla a più livelli, dove si è rispecchiata anche molto più che altrove la comunità afro (espliciti i richiami a Bobby Brown, Michael Jackson ed Elvis, col suo linguaggio gestuale mutuato dalla black culture) e che, con sottile ironia, riflette pure su se stessa entro l’universo industriale dell’azienda di Burbank: richiamando Mickey Mouse – oltreché con con un cameo insieme a Donald Duck – con un telefono da comò a sua somiglianza, Ariel de La Sirenetta con una lampada di un assurdo motel, il marchio dello studio con un portachiavi e il suo fondatore con un’esplicita battuta conservata nella versione originale. Un film visibilmente sincero, piccolo – nel senso più nobile del termine – e tutt’altro che povero di valore e contenuto, che non ha bisogno di eroi leggendari o regni incantati e punta tutto, come una mosca bianca in un’epoca marcatamente fiabesca, sul quotidiano, su barattoli di zuppa di warholiana memoria, su un padre che cerca, a suo modo, sbagliando e prendendo grosse cantonate, di ricostruire un legame con suo figlio.

E funziona. Funziona perché è autentico, universale, riuscendo a farci ridere, commuovere, riflettere. Trent’anni dopo, In viaggio con Pippo continua a riuscire a parlarci, forse persino meglio di allora. E se non l’avete mai visto, o se – come me – l’avevate un po’ dimenticato in qualche cassetto della memoria, è il momento perfetto per recuperarlo. Io ve lo consiglio. E adesso, rispolvero le canne da pesca che, appena la stagione lo permetterà, getterò la lenza…sperando di non agganciare nessun Bigfoot. Uh-hyuk!