intervista a cura di marco morelli
Da quando ho avuto il piacere di vedere Dreams (Drømmer) in anteprima stampa all’ultima Berlinale, sono rimasto totalmente ammaliato dal cinema di Dag Johan Haugerud. Pochi autori, oggi, riescono a realizzare opere così intellettualmente stimolanti e vitali; come ho già espresso nel recap berlinese,sono rimasto molto soddisfatto per la vittoria dell’Orso d’oro. Wanted Cinema aveva intuito il potenziale, acquisendo i diritti per la distribuzione italiana della trilogia ancor prima che Drømmer venisse presentato a Berlino. Con l’uscita in sala di Love (Kjærlighet), il Centro Pecci Cinema ha celebrato l’evento con una proiezione integrale della trilogia alla presenza del regista.
Poco prima di concederci un’intervista, Dag Johan Haugerud ha presentato Love parlando brevemente di come ha concepito la trilogia, tema già affrontato il mese scorso durante la conversazione al Cinema Beltrade, dell’importanza della sessualità e delle relazioni umane e del suo amore per Éric Rohmer.

Grazie mille per essere qui con noi, Dag. La prima domanda che volevo porti è piuttosto personale. I tre film sono usciti a distanza di un anno nei festival internazionali e ancora meno in Norvegia. Come è stato aspettare le recensioni ogni volta per un progetto che non poteva essere completo e quanto è stato gratificante terminare questo viaggio con la vittoria dell’Orso d’oro a Berlino?
DJH: Parto dall’ultima domanda: vincere l’Orso d’oro è stato molto gratificante. È stata, ovviamente, un’emozione fantastica, e vedo quel premio come un riconoscimento per l’intera trilogia. Per il resto, è sempre una pressione aspettare le recensioni dei critici, così come è stressante scoprire se i film verranno scelti per i festival perché hai il dubbio fino all’ultimo. Per me, la fase migliore del processo di filmmaking è la scrittura iniziale; anzi, ancora meglio è immaginare il film come se fosse un sogno. È molto divertente anche scriverlo, lavorare con gli attori e girarlo; però, quando si arriva in sala di montaggio inizia tutta la pressione, perché i produttori e i distributori vogliono vedere un prodotto finito, qualcosa che possa essere venduto e inviato ai festival. Pertanto, in quel frangente ti senti meno libero: penso che l’elemento principale del fare cinema risieda nella libertà di immaginare e di avere molte scelte. Purtroppo, queste scelte diminuiscono con il progredire delle riprese; inoltre, sai che devi montare il film unicamente con il materiale girato e non c’è nient’altro che tu possa fare al riguardo.

A proposito di Drømmer, ho adorato le scene in cui Johanne è a Oslo e si dirige da casa sua all’appartamento di Johanna. Quanto è stata importante l’architettura di Oslo in tutta la trilogia, presente anche in «Sex» e «Kjærlighet», e cosa rappresentano tutte queste scale e i dislivelli? Potrebbero essere una metafora del viaggio emotivo di Johanne?
DJH: Sì, assolutamente: le location sono fondamentali perché volevo mostrare diversi lati di Oslo. Volevo valorizzarla, dal momento che non sono di Oslo, non è la mia città natale anche se ci vivo da molto tempo; quindi, penso di poter scoprire cose diverse sulla città, ancor più di quanto potrei fare se ci fossi nato perché riesco a vederla sempre con un occhio nuovo. Penso anche che quando giri un film sei un po’ come un antropologo: puoi osservare cose che solo la macchina da presa permette di vedere. Anche questo aspetto mi piace molto e lo considero una delle migliori possibilità del cinema. Penso che a volte sia sufficiente posizionare la macchina da presa sulla strada e vedere cosa sta succedendo, come se ci fosse una coreografia della città in movimento: personalmente lo adoro. Abbiamo scelto location diverse e abbiamo cercato di esplorare tutta Oslo: in Drømmer, volevamo davvero mostrare questo quartiere particolare da dove proviene Johanna. L’appartamento è collocato in una parte della città moderna e piena di new riches, ma per arrivarci Johanne attraversa una parte più povera dove vivono molti immigrati. Ho pensato a questa discrepanza da molto tempo e ritengo importante rappresentarla su pellicola per il pubblico, perché è qualcosa che tutti notano quando vanno ad Oslo.

DJH: Sul ruolo delle scale hai assolutamente ragione: in Drømmer è una metafora per la sessualità. Io vivevo non molto lontano dalle scale che sale la nonna nella scena del sogno: un tempo lì c’era un trampolino per il salto con gli sci, poi demolito e sostituito da quelle lunghissime scale, che ne richiamano ancora la forma. Ho pensato che avrei dovuto aggiungerle in tutti i modi in un film, ancor prima di iniziare a scrivere la sceneggiatura della trilogia. Da lì ho pensato che dovessimo girare anche altre scale e abbiamo iniziato a cercarle per tutta Oslo: è sconvolgente quante ne abbiamo trovate, ne vedevamo di meravigliose dappertutto.

Nella conferenza stampa a Berlino, hai dichiarato che scrivere i nostri ricordi è importante per mantenerli vivi man mano che invecchiamo. Personalmente penso che scrivere, come vediamo nei film della trilogia, sia una forma di terapia: alla fine di «Drømmer», Johanne va da uno psicoterapeuta ma si rende conto di essere riuscita ad elaborare l’esperienza grazie alla sola scrittura. Cosa pensi dello scrivere, del cinema e dell’arte in generale come forma di catarsi? Come puoi paragonare questa forma di auto-scoperta alla psicoterapia?
DJH: Penso che non sia così facile rispondere, perché credo che la scrittura abbia diverse sfumature. Puoi scrivere per te stesso, per esempio tenendo un diario, e questo può diventare un atto terapeutico. Tuttavia, se ti rendi conto di essere bravo a scrivere, potresti voler pubblicare quel diario; se redigerlo per te è stato così terapeutico, in un certo senso, senti che può servire far conoscere la tua esperienza ad altre persone. Penso che ci siano due scritture: una terapeutica, per sé, e una narrativa, destinata a un pubblico. In Norvegia, oggi, c’è una grande tendenza all’auto-fiction: è un ibrido tra questi due approcci. Non so se sia così ovunque nel mondo, ma qui è molto diffuso. A volte penso che tutti credano di poter scrivere un libro perché la scrittura diventa un modo per esprimersi: non voglio giudicare, ma mi limito a mettere in discussione questo fenomeno cercando di guardare cosa nasconda veramente. Per me scrivere è sempre stato necessario, sia come terapia che come approccio al mondo, ma non mostrerei mai un mio diario personale: la narrativa è tutta un’altra cosa. Nel caso di Johanne, penso che nel pubblicare il suo diario superi una soglia che forse non andrebbe oltrepassata.

Un’ultima domanda. Ho notato un crescente interesse internazionale per il cinema norvegese negli ultimi dieci anni. «Sick of Myself» è diventato una sleeper hit su MUBI e Trier è ormai un regista affermato a livello mondiale e si candida a essere uno dei frontrunner per la prossima edizione di Cannes. Come vedi questo movimento e come pensi che il cinema norvegese ne trarrà beneficio, se d’ora in poi otterrà riconoscimento a livello mondiale?
DJH: Penso di sì, anche perché lo stesso fenomeno sta succedendo nella TV. Alcune serie norvegesi su Netflix stanno riscontrando molto successo, e abbiamo avuto SKAM che è stato un fenomeno internazionale. Insomma, negli ultimi 10-15 anni la Norvegia ha prodotto moltissimo, sia per il cinema che per la televisione, e penso che questo trend stia crescendo. Credo che ci sia un nuovo riconoscimento per il cinema e la serialità norvegesi e spero che si possa continuare a costruire su questa base.
Ricollegandomi a questo, c’è qualche titolo norvegese, anche meno conosciuto, che ammiri e che consiglieresti agli appassionati internazionali?
DJH: Sì, assolutamente. Una regista che ammiro molto è Itonje Søimer Guttormsen. Consiglio il suo film Gritt, che trovo bellissimo. Al momento sta lavorando a un nuovo progetto, ancora in fase di realizzazione: spero davvero che, una volta completato, possa avere una buona distribuzione internazionale.
Condividiamo lo stesso augurio: che il nuovo film di Guttormsen trovi il suo pubblico, e che sempre più spettatori si avvicinino al cinema norvegese. Ringraziamo di cuore Dag Johan Haugerud per la generosa disponibilità, il suo ufficio stampa e il Centro Pecci nella persona di Luca Barni. Love è nelle sale italiane da ieri: andatelo a vedere e mettete in watchlist tutti gli altri capitoli di questa meravigliosa trilogia.