intervista a cura di giulia gelain
In occasione della 32° edizione del festival Sguardi Altrove, tenutosi a Milano, abbiamo incontrato Arianna Casati, Bianca Thiebat e Camilla Grossi, registe del cortometraggio documentario «Ma’», già presentato durante la scorsa edizione del Festival di Bellaria.

«Ma’» nasce come cortometraggio di chiusura al vostro percorso presso la Civica Luchino Visconti di Milano: come mai avete deciso di girare questo documentario, com’è nata l’idea e quali sono stati i primi passi?
«L’idea di Ma’ è nata nel tempo. Stavamo seguendo un corso serale di documentario alla Civica, e dovevamo presentare un’idea di progetto. Una “spinta” concreta ce l’avevamo, ma da lì in poi è stato tutto molto naturale: ci siamo trovate bene tra di noi fin da subito, come sensibilità e come modo di pensare, e questo ci ha fatto venire voglia di costruire qualcosa insieme. All’inizio l’idea era completamente diversa, eravamo concentrate su un altro progetto. Poi abbiamo provato a mettere a fuoco: siamo arrivate al progetto finale con un percorso lunghissimo, fatto di tantissime chiacchiere, riflessioni, dubbi, cambi di rotta… insomma, il processo mentale è stato la parte più lunga, faticosa e interessante. Abbiamo creato tutto mano a mano, pensando insieme e alimentandoci l’un l’altra.»
«Quando finalmente abbiamo girato il documentario tutto è stato molto rapido – sia perché avevamo tempo limitato (abbiamo girato in una settimana) perché il costante lavoro ci aveva reso le idee più chiare, proprio perché venivamo da mesi di pensiero continuo. Avevamo già iniziato a capire che ci interessava parlare del femminile e avevamo avviato qualche riflessione su come questo sia influenzato dalle figure che per prime ce lo veicolando quando è arrivata la svolta: una nostra conoscente ci ha raccontato la storia di tre sue amiche, madri di figlie preadolescenti. Ci ha colpito subito: queste mamme avevano cresciuto le figlie con valori molto forti, legati al femminismo e alla libertà e si trovavano in difficoltà a relazionarsi con loro, proprio perché le bambine erano diventate molto sveglie e consapevoli del mondo attorno a loro.»
«Così siamo andate a conoscerle e siamo state particolarmente fortunate perché si sono aperte tantissimo con noi. È nato subito un clima di fiducia, uno spazio di racconto sincero dove si sono messe a nudo, parlando della maternità in modo autentico e anche molto diverso tra loro. Ecco, in quel momento tutto il nostro lungo processo di riflessione ha trovato forma: qualcosa di semplice, diretto, ma profondamente consapevole. Se è vero che abbiamo continuamente riflettuto in ogni fase del progetto è anche vero che alcuni elementi fondamentali del film sono stati veri e propri lampi, incontri fortuiti e magica casualità come la scelta della canzone finale a cui teniamo moltissimo. Wishing I was you è un brano di Cat Janice che ci ha subito molto colpito. Il film è in sua memoria, come si legge nei titoli di coda. Proprio mentre stavamo montando il film abbiamo conosciuto la sua storia: Cat era infatti una cantautrice americana in fin di vita che aveva provato a rendere virali le proprie canzoni su Tiktok per aiutare nel mantenimento del figlio. La sua storia ci ha davvero commosso e abbiamo deciso che avremmo voluto una sua canzone nel film. Abbiamo fatto delle ricerche e dalle primissime note e battute nella saletta di montaggio avevamo capito che sarebbe stata lei. È stata una corsa contro il tempo. Siamo rammaricate del fatto che Cat non ci sia più e che non abbia potuto vedere il film al quale ha contribuito. I nostri scambi sono stati intensi, quando sentiamo la sua voce sul finale ci si stringe il cuore.»
Com’è stato lavorare con le bambine e i bambini?
«Intenso, tenerissimo e totalmente imprevedibile ed è proprio questo che ha reso l’esperienza speciale. Essendo un documentario, non avevamo un copione, nessuna domanda rigida, nessuna risposta prevista. Ci siamo lasciate guidare dalle suggestioni. Ogni giorno incontravamo le tre famiglie in momenti diversi, sempre cercando di ascoltare senza forzare. Abbiamo iniziato parlando con i bambini accanto alle loro mamme, e già lì ci hanno stupito… ma poi, quando li abbiamo messi insieme, da soli, lontani dai genitori, è successa la magia: si sono trasformati. Si sono aperti in modo incredibilmente sincero. È stato divertente, ma anche profondo. Ci hanno fatto riflettere su quanto siano complessi, forti e fragili allo stesso tempo. A quell’età (preadolescenza e adolescenza) hanno un mondo dentro, espesso nessuno glielo chiede davvero. Loro hanno fatto il film. Sono stati il cuore pulsante del progetto.»
«Le due bambine che si vedono all’inizio (Anna e Clara) erano super intraprendenti, adoravano farsi vedere, raccontarsi, mostrarsi. Sveglissime. Abbiamo dovuto tagliare un sacco di cose solo per stare nei tempi. Poi c’era la ragazza più grande (Clio), la figlia della seconda mamma, 16 anni: con lei si percepiva proprio il passaggio a una fase diversa. Più consapevolezza, più distanza, ma anche un rapporto con la madre molto trasparente, quasi sorprendente per quell’età. Ci ha colpito molto.»
«Infine, gli ultimi due, un bambino (Emi) e una bambina (Mati), figli della terza mamma, avevano un rapporto con lei fatto di amore e continua tensione. Non conflitto vero e proprio, ma scontro sì. Si percepiva qualcosa di più complesso, anche per via del fatto che sono figli di genitori separati, e pur senza parlarne direttamente, questa cosa si sentiva nell’aria. Ma anche lì, tanto affetto, tanta verità. Insomma, ogni bambino e bambina ci ha mostrato un universo. È stato un viaggio dentro di loro, ma anche dentro di noi.»

Un oggetto ricorrente nel film è lo specchio: qual è il significato che gli avete attribuito?
Lo specchio è un confine, ma anche un ponte. L’idea è nata dalla possibilità che potesse costituire fisicamente la metafora del rispecchiarsi dei figli nei genitori e viceversa. Dal punto di vista tecnico pensavamo potesse essere un ostacolo, qualcosa di “scomodo” da mettere davanti a chi intervistavamo ma questo non ci ha fermato dal voler provare ad utilizzarli. Nel concreto, durante le riprese le mamme facevano fatica a guardarsi, a mantenere il contatto visivo con i propri occhi riflessi. Ma poi abbiamo capito che proprio lì stava la chiave: lo specchio ti costringe a un confronto con te stessa, a guardarti dentro, anche quando non vuoi farlo.
Da un punto di vista tecnico è stato prezioso, perché ha aiutato a rompere certe barriere — e visivamente è diventato un elemento forte, simbolico ma anche leggero, quasi magico. I bambini ci hanno letteralmente giocato: si specchiavano, ridevano, si rincorrevano attorno. A un certo punto l’abbiamo messo nell’acqua e si sono divertiti tantissimo. Lo specchio è diventato così uno spazio di passaggio tra sé e l’altro: il luogo dove ti guardi, sì, ma dove spesso finisci anche per vedere qualcun altro riflesso in te. È stato insieme un gioco e una rivelazione.
Chi sei tu senza di me? Chi sono io oltre a te? – Quanto ci segna il legame viscerale con la persona che ci ha generato? Crescendo, ci rendiamo conto di essere persone diverse…ma quanto, realmente?
Il legame con la madre è qualcosa di viscerale, di impossibile da ignorare. Ma quello che ci ha interessato di più, lavorando a Ma’, è stato provare a capovolgere lo sguardo: chi è nostra madre senza di noi? Chi era prima di diventare “la mamma”? Spesso facciamo fatica a separarla da quel ruolo. È come se non la vedessimo più come donna, come individuo, ma solo attraverso il filtro della maternità. Invece, incontrando le mamme del documentario, ci siamo accorti di quanto fosse importante, e anche liberatorio, riconoscere che c’è una persona oltre al ruolo. E ognuna lo vive in modo diverso: alcune si ritrovano, altre si perdono un po’, altre ancora riescono a tenere insieme tutto. Anche per questo abbiamo scelto di inserire il materiale d’archivio che ci ha donato Cinescatti di Bergamo: delle bellissime riprese realizzate da Silvana una donna vedova negli anni Cinquanta, una delle poche cineamatrici dell’epoca, che filmava le sue figlie durante le vacanze. Di solito erano i padri a fare le riprese, ma in questo caso è lei a prendere in mano la macchina da presa e in quelle immagini si vede tutta la delicatezza e l’intimità del suo sguardo. Guardando quei filmati ci siamo chiesti: chi era questa donna, davvero? Cosa desiderava, cosa pensava, cosa le piaceva? E da lì, inevitabilmente, siamo tornati a porci la stessa domanda sulle nostre madri. È stato un pensiero intenso, a tratti spiazzante: provare a separare la persona dal ruolo, e riconoscerla nella sua complessità.
Qual è, se vi va di rispondere, il rapporto con le vostre mamme? E, ad oggi, con l’idea della maternità?
Domanda complessa! Siamo in tre, con storie e vissuti diversi, quindi ognuna di noi avrebbe una risposta personale da dare. Possiamo dire che siamo tutte e tre molto legate alle nostre mamme. È un rapporto in continuo movimento, a volte si fa tenero, a volte più spigoloso, ma sicuramente ancora in divenire. E forse lo sarà sempre. Durante il lavoro su Ma’ ci siamo spesso riconosciute nei rapporti che vedevamo tra le madri e i figli del documentario: negli scontri, nelle incomprensioni, ma anche nella bellezza di quei legami imperfetti e profondissimi. Per quanto riguarda la maternità… beh, inevitabilmente il tema ci ha attraversate. Siamo tutte più o meno vicine ai trent’anni, quindi è un pensiero che, volente o nolente, inizia a fare capolino. Non per forza con un desiderio, ma come una domanda. Anche qui non abbiamo tutte la stessa visione, ed è giusto così. Forse proprio il documentario ci ha fatto capire quanto sia importante non avere risposte uniche o definitive, ma accogliere anche i dubbi, le sfumature, i “forse”.
Domanda bonus: ci regalate un piccolo ricordo della vostra infanzia? 🙂
Uno a testa? Dai.
Arianna: uno dei miei ricordi più vivi è il rapporto viscerale che avevo con la natura. Correvo nei campi, mi arrampicavo sulle balle di fieno, giocavo per ore all’aperto. Non stavo quasi mai in casa: c’erano le feste di compleanno al parco, le giornate infinite con gli amici, quella sensazione di libertà assoluta. E poi il Natale… quel momento in cui la famiglia si raccoglieva, ci si stringeva, ci si sosteneva anche quando nella quotidianità era più difficile farlo. Mi ricordo anche i profumi: diversi da quelli che sento adesso, come se ogni stagione avesse una firma olfattiva tutta sua. E mi ricordo di quanto fossi spensierata, leggera, libera. Forse per questo mi emoziona così tanto la frase finale del documentario, quando Clara dice: “Il mio dubbio è: quando diventerò grande, riuscirò ancora a giocare con le mie amate Barbie?” È una domanda semplice, ma potentissima. Perché crescendo spesso perdiamo il gioco, la leggerezza, il tempo per fantasticare. Ma forse il segreto è proprio quello: cercare di ritrovarli, ogni tanto. Anche da grandi.
Bianca: Le giornate passate all’aperto, sempre con qualche graffio sulle gambe e le mani sporche di terra. C’erano i giochi con mio fratello e mia sorella, le corse nei prati vicino casa, le sfide su chi si arrampicava più in alto o chi faceva il salto più lungo. Mi piaceva stare fuori, anche quando pioveva, anche quando faceva freddo. C’era una semplicità che oggi sembra lontana, ma che a volte riesco ancora a ritrovare in certi profumi, in certi silenzi. E in fondo, un po’ di quel mondo ce l’ho ancora dentro.
Camilla: Ho tantissimi ricordi riguardanti la mia infanzia, ne scelgo uno proprio legato alla mia mamma! Vivevamo a Parigi all’epoca e ricordo della mattina piovosa in cui mi disse per la prima volta che le lumache escono quando piove. Da allora quando piove ci penso sempre. Proprio qualche settimana fa pioveva e dalle grate del garage sgorgava l’acqua. Mentre mi avvicinavo soprappensiero alla macchina ho guardato a terra e ho notato un puntino maculato. L’ho preso inmano e immediatamente ho visto spuntare la sua testolina. Era una minuscola chiocciola, sarà stata grande non più di due millimetri! Non so come io abbia fatto a riconoscerla ma mi piace pensare che abbia fatto caso a ciò che era a terra proprio perché le lumache escono fuori quando piove! Questa attenzione, questa storia della mia infanzia mi ha aiutato a salvarla e a riportarla nel giardino. Apprezzo che mia mamma abbia provato a farmi notare la realtà, giocando con me, ricreando e impersonando le voci dei miei cartoni animati e travestendosi insieme e a me a Carnevale. È una mamma che ha provato a ridarmi la magia della vita. Questo suo modo di vivere l’ho ereditato, ho provato a farlo mio: mantenere una giocosità dell’esistenza, un altrove, uno spazio creativo.