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Di che cosa parliamo, quando parliamo dei classici Disney? In occasione del torneo natalizio che abbiamo lanciato in questi giorni, ecco un commento a caldo (o difesa spassionata) dei nostri film preferiti della grande mamma dell’audiovisivo di Burbank.

pocahontas (1995) / marco morelli

Piccola confessione: sebbene sia uscito nell’anno della mia nascita (1995), non ho particolari ricordi legati a Pocahontas da bambino e credo di averlo recuperato solo su internet diversi anni dopo. Ho comunque scelto di parlarne perché lo trovo magico come pochissimi altri. Affrontiamo subito l’elefante (non Dumbo!) nella stanza: Pocahontas è innegabilmente il film più problematico del Rinascimento Disney per almeno due ragioni. In primis, è stato accusato di scarsa accuratezza storica: Pocahontas è una nativa americana realmente esistita che fu catturata dai colonialisti inglesi a Jamestown quando aveva tra i 10 e i 12 anni. Convertita al cristianesimo, fu poi portata a Londra dove morì poco più che ventenne; si narra anche che fu oggetto di violenze da parte dei britannici. Inoltre, alcune parti del film (come la canzone Barbari) sembrano alludere a un’equiparazione tra nativi e settlers britannici, un errore grossolano riconducibile a una visione bianco-centrica del colonialismo che, purtroppo, è ancora oggi presente a Hollywood – si pensi alle critiche ricevute da Jonathan Glazer per il suo discorso agli ultimi Oscar.

Disney Classics Roundtable («Pocahontas»)

Fatte queste doverose premesse, cosa rende Pocahontas così speciale per me? Innanzitutto, la componente grafica è mozzafiato: i background sono spettacolari e fanno risaltare gli elementi naturali come acqua, terra e soprattutto vento. In aggiunta, le palette cromatiche – dominate da blu, fucsia, viola e rosa – rendono il cielo un tratto distintivo del film e non sorprende che la Disney sfruttò i migliori animatori e disegnatori per realizzarlo. Pocahontas è un tripudio di colori in cui questi svolgono una funzione narrativa e psicologica: oltre alle differenze nei colori della pelle basta pensare ai colori di alberi e animali, che da brillanti diventano marroni e grigi a causa della distruzione dei colonialisti.

Disney Classics Roundtable («Pocahontas»)

Questo contrasto cromatico trova il suo culmine nella meravigliosa I colori del vento, momento spettacolare e crocevia del film: ancora oggi alcune versioni della canzone possono essere viste su TikTok (tra cui una particolarmente gustosa dei Tokio Hotel) e, a mio avviso, è probabilmente la canzone più bella della Disney. Anche la protagonista rappresenta un punto di forza. Ho da sempre adorato il character design: fisico atletico, lunghissimi capelli corvini, zigomi alti, volto spigoloso e il tatuaggio la rendono unica e bellissima, tanto da essere la principessa più apprezzata dalla fascia 30/44 in un recente sondaggio americano. Molto è stato detto sul suo ruolo da donna nativa americana in una prospettiva femminista: in particolare, alcuni studi hanno apprezzato la sua indipendenza e avventurosità e hanno sottolineato l’importanza nel rappresentarla così spirituale, a stretto contatto con la natura e leale al suo popolo. Non sorprende che su Pocahontas siano stati modellati altri personaggi femminili non bianchi: viene subito in mente Moana, che ha beneficiato delle ambiguità presenti nella rappresentazione etnica della principessa del film del ‘95.

Disney Classics Roundtable («Pocahontas»)

In assoluto, ciò che amo maggiormente è la già citata spiritualità: Pocahontas è un film pieno di ascetismo e silenzi che rappresentano lo stretto contatto tra i nativi e la loro terra. Per questo motivo ho apprezzato la scelta di far parlare solamente gli alberi come Nonna Salice con i nativi, mantenendo gli animali in silenzio; pensando anche alla gravitas di alcune scene possiamo bollare il film come l’opera Disney più vicina a un certo tipo di cinema contemplativo. Oltre a Werner Herzog e Lisandro Alonso, il regista più associabile al film è Terrence Malick, che nel 2005 riprese la storia di Pocahontas nel suo The new world.

Disney Classics Roundtable («Pocahontas»)

Il finale è, a mio avviso, il più struggente tra i Classici: Pocahontas sceglie di stare vicino al suo popolo salutando John Smith da un promontorio, accompagnata dalle foglie al vento (non quelle dello splendido film di Aki Kaurismaki, ma ci accontentiamo) e dall’ottima OST di Alan Menken. Se non consideriamo i film antologici del dopoguerra come Musica Maestro!, è anche l’unico ad avere un finale bittersweet. Pocahontas può essere dunque visto come una storia di formazione in cui la protagonista desidera scoprire le novità al di fuori della propria tribù e vive un conflitto interiore tra il rispetto delle tradizioni e il fascino dell’esotico, come suggerisce la splendida Dopo il fiume cosa c’è. A proposito di quest’ultimo punto, è innegabile che il film cerchi di presentare gli inglesi come avidi e insensibili sfruttatori: sebbene possa sembrare una caratterizzazione superficiale, occorre tenere presente che il film ha quasi trent’anni (!) e si tratta pur sempre di un Classico di quel periodo (Pocahontas, uscito a giugno 1995, è l’ultimo Classico Disney prima dell’esordio in sala dei lungometraggi Pixar: Toy Story venne proiettato nei cinema circa cinque mesi dopo) 

Disney Classics Roundtable («Pocahontas»)

È fuori questione che se la Disney avesse scelto di ambientare una storia a Jamestown a inizio 17° secolo senza utilizzare il nome di un personaggio realmente esistito il film sarebbe stato molto meno problematico: tuttavia, se praticamente chiunque ha perdonato la distorsione della Storia in chiave feticista dell’ultima opera di Tarantino, perché non fare lo stesso per un cartone che si prefigge di parlare di xenofobia e senso appartenenza? In definitiva, a mio avviso Pocahontas è un colorato affresco sull’accettazione del diverso e sul rispetto della natura con elementi contemplativi. Pur non essendo il Classico più bello tra i 63 finora usciti è, senza dubbio, un film che merita di essere difeso e apprezzato ancora oggi.

Disney Classics Roundtable («Pocahontas»)

los tres caballeros (1944) / virginia maciel da rocha

Ho deciso di parlare in questo spazio di Los tres caballeros perchè si tratta di un film che ha sempre fatto parte della mia infanzia, credo in modo del tutto casuale. Non è sicuramente tra i lungometraggi più noti realizzati dalla Disney – nonostante l’attore protagonista, Paperino, sia molto famoso – e non so se mai mi ci sarei imbattuta nella vita, se mia nonna non avesse una copia registrata in VHS in casa. Il film era stato registrato da una volta che era stato messo in onda su Rai Tre, nei primissimi anni duemila (mi ricordo distintamente il logo vecchio nell’angolo del frame televisivo). Ho guardato a ripetizione quella cassetta, fino a consumarla – se dovessi riguardarlo oggi, mi farebbe strano vedere il film per intero, in buona definizione, senza che “salti” in alcuni punti ben precisi.

Disney Classics Roundtable («Los Tres Caballeros»)

Il fascino che continuo ad avere per questo film deriva in buona parte dalle storie che racconta e dall’ambientazione insolita, almeno negli anni Quaranta (e fino al 2005, anno in cui forse ho smesso di riguardarlo), per un film Disney. I bambini di oggi sono abituati ad andare al cinema e scoprire le tradizioni messicane con Coco, oppure cantare la musica di Encanto, spostandosi con le ali della fantasia in una coloratissima Colombia; quando ero io il target ideale dell’animazione Disney, di rappresentazione latinoamericana ce n’era ben poca e Los tres caballeros era un’eccezione nel panorama. Il protagonista Paperino compie un grande viaggio in Sud e Centro America: la storia prosegue a episodi e in ogni segmento fa tappa in un Paese diverso. Neanche a dirlo, ma ovviamente il mio episodio preferito era (ed è) quello in cui scopre il Brasile, in particolare la regione della Bahia, accompagnato dall’ospite di eccezione José Carioca, il parrocchetto verde che parla solo portoghese brasiliano – con un forte accento, appunto, carioca. Paperino e José “Zé” Carioca partono alla volta della Bahia, fino a che non incontrano una bellissima ragazza, interpretata in carne e ossa da Aurora Miranda (ma che ne sa, alla fine, Space Jam?), che farà battere il cuore a entrambi e innesca una sana competizione tra maschi per la conquista della donna.

Disney Classics Roundtable («Los Tres Caballeros»)

Certo, solo da grande ho scoperto che il film, in realtà, si inseriva in un progetto propagandistico statunitense mirato a far vedere i “buoni rapporti” tra la madrepatria e il Sudamerica, ma questa è una parentesi che meriterebbe un altro approfondimento. Certo, il Brasile viene rappresentato spesso in modo stereotipato – la classica figura della bahiana che porta la frutta in un cesto posto in equilibrio sopra la testa – ma non mi scorderò mai della prima volta in cui ho sentito parlare in portoghese in un prodotto audiovisivo trasmesso su mamma Rai e per questo non posso che restare affezionata alle avventure dei tre caballeros.

Disney Classics Roundtable («Los Tres Caballeros»)

mary poppins (1964) / pavel belli micati

Lo so, sarà una delusione, ma io all’animazione ho sempre preferito il live-action. A scanso del postmoderno che infonde di umanità i giocattoli dimenticati dell’universo tardocapitalista di Toy Story, io con le favole e gli animali che parlano ci facevo ben poco. A Dragon Ball ho sempre preferito Veronica Mars, così come a Doraemon preferivo La signora in giallo. In aria natalizia, non ne parliamo: fatta eccezione per gli adattamenti del dickensiano Canto di Natale – molto istruttivo in materia di energia karmica e colpa calvinista – per me il film che celebra la venuta di Cristo sulla terra, da buon figlio di papà Fininvest, è il sempreverde Miracolo nella 34° strada. Ma dato che il celebre remake con il famoso volto di Matilda 6 mitica è una produzione della 20th Century Fox, e qui per forza di Disney bisogna parlare, il film che più associo al colosso di Burbank è niente meno che Mary Poppins.

Disney Classics
Disney Classics Roundtable («Mary Poppins»)

Praticamente perfetta sotto ogni aspetto, la singolare bambinaia uscita dall’immaginario di P. L. Travers mi affascinava non solo perché dotata di sagacia e ironia, ma anche e soprattutto perché ad interpretarla era Julie Andrews, per me nonna numero due dopo Angela Lansbury – che era nonna numero uno. Alta, distinta e piena di talenti nascosti, Mary Poppins arrivava al numero 17 di Viale dei Ciliegi con un compito preciso: educare alle buone maniere due pargoli che venivano trascurati dai genitori indaffarati. Così, già da piccolo capivo che non era sbagliato lottare per l’emancipazione femminile, così come faceva Winifred Banks, e che un tenore di vita così alto – e una casa così figa – te lo potevi permettere solo se lavoravi in banca, proprio come faceva George Banks; allo stesso modo, apprendevo che per essere meravigliosi bisogna stare vicino alle meraviglie, e se Mary Poppins mi ricordava un po’ tutto ciò che mi era mancato, al contempo diventava tutto ciò che volevo diventare.

Disney Classics
Disney Classics Roundtable («Mary Poppins»)

Come una Holly Golightly di Camden Town, una Biancaneve ai tempi della regina Vittoria, Mary Poppins era sempre giusta e imparziale, in tutto e per tutto. Se la sua severità a volte appariva rigida, le sue amicizie con creature di tutti i regni animali e classi sociali informavano la sua amplia bussola morale, testimoniavano della sua larghezza di vedute. Ho sempre creduto fosse un segno d’aria, con una bella luna piantata in terra. Questa statuaria nanny dissimulava pure il suo narcisismo con un sorriso enigmatico che faceva breccia nel cuore di tutti. Il set design di quella fantastica Londra poi rimane ai posteri e le canzoni originali dei fratelli Sherman sono negli annali; ma ciò che più ricordo di Mary Poppins è una lezione di vita: nel momento esatto in cui tutto volge per il meglio, bisogna andare via. Non ho ancora imparato a farlo. Forse però, un’altra cosa che allora le invidiavo ora ce l’ho: chi si ricorda la magica borsa dal fondo illimitato? Le bag a tracolla di UNIQLO funzionano allo stesso modo. 

Disney Classics
Disney Classics Roundtable («Mary Poppins»)

fantasia (1940) / alberto frosini

Fantasia, prodotto da Walt Disney, rappresenta uno dei massimi vertici del cinema d’animazione, nonché un audace esperimento artistico senza precedenti. Concepito in un periodo di trasformazioni nel mondo della musica classica, in cui gli album discografici stavano rendendo accessibili intere opere al grande pubblico, Disney risponde a questa rivoluzione con una pellicola visionaria e inarrivabile. La grandiosità della visione creativa del produttore e dei registi emerge nella indiscussa potenza degli episodi che compongono questo lungometraggio antologico. Ogni episodio è infatti un piccolo universo narrativo e stilistico, capace di incantare per la sua varietà e intensità emotiva.

Disney Classics Roundtable («Fantasia»)

Tra i segmenti più memorabili spicca Notte sul Monte Calvo, in cui il gigantesco e terrificante demone Chernabog incarna il lato oscuro e inquietante della narrazione visiva. In netto contrasto, il segmento precedente, La Danza delle Ore, punta invece sull’ironia e sulla comicità, presentando un’assurda coreografia di ippopotami in tutù e altri animali danzanti. In questo modo il film alterna momenti di grande poesia scenica e comicità fisica tipica del cinema muto, creando un’esperienza tanto varia quanto coesa. L’introduzione e l’intermezzo live-action con l’orchestra, non si limitano a offrire brevi e maestose pause narrative ai segmenti animati. Al contrario, essi amplificano il senso di grandiosità dell’opera e aggiungono un elemento didattico che rafforza la perfetta fusione tra musica e animazione che costituisce il cuore pulsante di Fantasia.

Disney Classics Roundtable («Fantasia»)

Pur avendo citato alcuni corti magnifici all’interno del film, il segmento simbolo del lungometraggio è L’apprendista stregone, basato sull’omonimo poema sinfonico. Questo episodio segna una svolta storica per Topolino, trasformandolo da semplice mascotte a figura iconica capace di sostenere una narrazione complessa. Gli occhi semplici e furbi di Steamboat Willie lasciano spazio a un Topolino rinnovato, dotato di iridi animate e maggiore profondità espressiva, che lo elevano oltre la bidimensionalità e lo consacrano come personaggio universale. L’influenza di Fantasia va ben oltre il suo tempo. Ha infatti ispirato innumerevoli opere, tra cui, ovviamente, il sequel Fantasia 2000 o anche animazioni non Disney come What’s Opera, Doc? dei Looney Tunes, che rielabora il linguaggio visivo e musicale delle opere di Wagner in chiave parodica. Tuttavia, Fantasia rimane un’opera unica: una sintesi perfetta tra musica classica e cinema, capace ancora di stupire e fare riflettere sui confini dell’animazione.

il re leone (1994) / giulia giovannini

Metto le mani avanti, questo mio piccolo commento su Il re leone (1994), sarà, inevitabilmente, emotivo e molto di parte. Ricordo come se fosse ieri la prima volta che ho visto il film, all’età di cinque anni. Non so ben spiegare cosa sia stato precisamente a far nascere in me questa sorta di imprinting, tuttavia è certo che, a oggi, non esiste volta in cui non mi vengono i brividi sulla pelle se mi capita di sentire anche solo per sbaglio due note di Il Cerchio della Vita. Ricordo come se fosse ieri anche le giornate passate a casa di mio nonno, quando lo obbligavo, ripetutamente, a sollevarmi e reggermi in aria dal bordo del letto, «proprio come Simba».

Disney Classics Roundtable («Il re leone»)

Il mio apprezzamento per il film, tuttavia, non si basa solamente sul sentimento provato per il ricordo della mia infanzia. Negli anni mi è capitato più volte di fare rewatch, cosa che mi ha portato a cogliere i dettagli di un prodotto che innegabilmente funziona. Dico spesso di non essere fan dei musical, tranne “alcune eccezioni” dove le canzoni mi risultano perfettamente integrate con la trama, dando valore aggiunto alla storia. Ogni volta che pronuncio questa fase nella mia testa c’è Il re leone. Ripensandoci sempre di più, crescendo, mi sono resa conto che questo cartone “per bambini” nasconde tanti aspetti che così infantili non sono. Tipico di Disney. Il mondo ha personaggi e lati cupi, che non vanno ignorati ed esclusi ma possono essere capiti. Se non loro, quantomeno cosa sta dietro alle azioni umane (o in questo caso feline?). Cosa porta un cattivo ad essere cattivo e cosa fa di un buono tale? Io credo che l’intento de Il re leone, ammorbidito dalla sua atmosfera colorata e divertente, sia appunto quello di farci riflettere su questo tema. 

Disney Classics Roundtable («Il re leone»)

Una storia di vita, crescita, scoperta, fiducia negli altri, che nella sua finzione ha a che fare con temi reali. Mi piace pensare che qualcosa di tutto questo si sia fatto spazio nel mio subconscio sin dalla prima visione. Tanti personaggi, tutti perfettamente curati nelle loro disparate personalità non possono che far affezionare lo spettatore. Partendo dagli iconici Timon e Pumbaa fino ad arrivare al saggio Rafiki, che la me ormai adulta pensa di tanto in tanto, continuando a sperare di poter trovare un equivalente guida spirituale nella sua vita vera. Ti aspetto Rafiki, prima o poi ti troverò. 

Disney Classics Roundtable («Il re leone»)

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