approfondimento a cura di filippo bruni
Sono tante le cose che ho amato di questo film. Le luci sfumate, la campagna brulla e desolata, i rumori di una terra antica, magica, misteriosa. Più di tutto però ho amato il modo in cui Alice Rohrwacher ha saputo raccontare una rapporto – forse il suo – così intenso e viscerale con il passato. La Chimera è il racconto di una terra misteriosa, dei suoi paesaggi rurali e malinconici e del tempo che inesorabilmente scorre su di essa e su di noi.

Siamo nella Tuscia degli anni ’80 e se dovessi riassumere in una sola frase l’argomento de La chimera, direi senz’altro che è un film sul tempo passato. La regista costruisce con sapienza un dialogo fra mondi trascorsi: quello etrusco, passato da duemila anni e quello dei protagonisti, passato da quaranta. Al centro c’è il dialogo potente e straniante fra l’aldiquà dall’aldilà, fra cui si trova un velo sottile, trasparente, quasi permeabile, intorno a cui si gioca l’intera vicenda del film.

Quello di Alice Rohrwacher è un film costruito sui confini: il confine fra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, il confine fra l’amore e l’avidità, il confine fra la luce e le tenebre. Il mondo di sopra e quello di sotto si intrecciano continuamente con imprevisti cambi di prospettiva, capaci di disorientare e lasciare incerto lo spettatore su quale fra i due sia davvero il regno dei vivi. Mi viene in mente a questo proposito la villa decadente, in rovina eppure bellissima, in cui vive la madre di Beniamina (Isabella Rossellini). Mi vengono in mente gli affreschi sulle pareti dei saloni che ricordano gli stili pompeiani. Quelle fantasie e quei colori sono i medesimi che si intravedono nelle tombe etrusche, illuminati dalla luce flebile di una candela, quasi che quella villa fosse anch’essa una tomba: la tomba dei vivi.

Ho amato il racconto amaro della miseria di un gruppo di tombaroli, che si barcamena per vivere, cercando sottoterra una ricchezza che non sa trovare sopra. Ho amato il ritratto, lungo un intero film, della loro guida, Arthur (Josh O’Connor), un giovane rabdomante inglese, promessa dell’archeologia con il dono di trovare l’introvabile. Arthur e i suoi riportano la luce in luoghi che per duemila anni l’hanno dimenticata, luoghi costruiti per non rivederla mai più. Le loro mani sfiorano oggetti quotidiani: una fibula che raccoglieva i capelli di una ragazza, un ciondolo con cui aveva giocato qualche bambino, crateri finemente dipinti usati per le libagioni, buccheri neri come l’avorio. Sono oggetti che trasudano vita, la vita vera di ogni giorno, quella che nessun libro sa raccontare come lo sanno fare dei manufatti. Quei cocci ci parlano delle persone che li tenevano in mano, persone come noi, che potremmo incontrare su un vagone di un treno. Ci testimoniano le gioie, i dolori, i giochi, i desideri; ci raccontano i matrimoni, i lutti, le nascite.

I membri della banda, tuttavia, sembrano vedere solo il denaro che quegli oggetti possono fruttare: vedono l’oggetto e non la vita di chi lo adoperava. Arthur, però, è diverso da loro. Quando entrano furtivi nelle tombe, gli occhi dei compagni brillano per il desiderio di ricchezza, i suoi invece luccicano di commozione. La bellezza esiste per gli occhi che la scorgono e gli occhi di Arthur, così pieni di stupore, sono ben coscienti di essere i primi a rivedere quella bellezza sepolta da millenni. Questo giovane inglese è un personaggio incredibile. Sembra che non abbia bisogno di niente per vivere. Sono poche le scene in cui si vede bere, pochissime quelle in cui mangia qualcosa. È magro, solo, dimenticato. La sincerità della sua passione per quelle antichità nascoste, rinvivita sulla soglia di una tomba dalle parole penetranti di Italia, finisce per allontanarlo irreparabilmente dai compagni e segna il confine fra il suo amore e lo sciacallaggio degli altri profanatori di tombe.

Arthur vaga solitario per il paese e per le campagne umide, brulle e malinconiche, come se fosse uno straniero nel mondo dei vivi. Il suo statuto di esule emerge nel suo italiano imperfetto e nei suoi abiti sporchi e sdruciti, seppure sempre eleganti. Vaga randagio sulla frontiera che separa il mondo di sopra e il mondo di sotto. È un ramingo, sfruttato dall’avidità dei vivi per il suo dono di saper scavare fra le ricchezze dei morti. Irrimediabilmente solo, Arthur è un Rosso Malpelo.

C’è un filo rosso che scorre dall’inizio alla fine del film, che appare e scompare ma continuamente segna e orienta la vicenda del protagonista: l’amore di Arthur e Beniamina. Il loro è un amore interrotto ma non finito. Come un fiume carsico che scorre nelle profondità della terra e ogni tanto torna alla luce, l’immagine di Beniamina, del suo sorriso dolce e dei suoi passi allegri riemerge nei sogni ad occhi aperti di Arthur, nelle sue chimere. Beniamina è morta, oppure, come ripete la madre, è partita e forse un giorno tornerà. Arthur ne cerca le tracce, la ricorda, la pensa per tutto il film e in questo leggiamo il suo destino: amare ciò che non c’è più.

Sono convinto che proprio a questo proposito ci sia un luogo dotato di grande valenza simbolica, oltre la villa e le tombe. Si tratta della stazione abbandonata, dove decide di rifugiarsi Italia, una giovane mamma, che nascondeva al mondo i suoi due figli. Le stazioni sono luoghi in cui si parte, in cui si torna, in cui ci si saluta. Sono luoghi che brulicano di vita. Questa piccola stazione di campagna invece è deserta e abbandonata. Sul bordo di quei binari, ora dimenticati e coperti dai rovi, sono stati scambiati abbracci, baci e addii, di cui adesso resta solo il ricordo nella memoria di chi è rimasto. Questa ormai è la stazione in cui si attendono quei treni che sono destinati a non arrivare. O forse c’è un solo treno capace di percorrere quei binari, il treno del tempo passato, quello su cui in molte scene del film vediamo viaggiare Arthur.

Dicevo che al centro del film c’è il velo sottile che separa il mondo di sopra e quello di sotto, e così quando il velo si alza, la vicenda può trovare la sua conclusione. Forse è proprio nell’incontro fra i due mondi che si percepiscono i toni più dolci ed è proprio in questo incontro che troviamo scritto il segreto profondo di questa terra e di questa pellicola. La chimera è un film che nel suo sapore antico, nei suoi colori arcaici e nell’odore di pioggia che si sente dall’inizio alla fine ci fa respirare il mistero di una terra misteriosa, che conserva eternamente nel proprio grembo il ricordo di chi l’ha vissuta.
