di pavel
Martedì 23 aprile si è svolto il sesto e ultimo appuntamento di Indocili, la rassegna organizzata da Tafano Cinema e ospitata dal magnifico Cinema Beltrade a Milano, dove a questo giro è stata proiettata una selezione già presentata durante le scorse edizioni di Concorto, festival di cortometraggi che si svolge da oltre vent’anni in una suggestiva location estiva a Pontenure, Piacenza. Dopo il talk di consueto ospitato al Bar Rondò, alla presenza della redazione milanese di Scomodo, la rassegna ha preso vita in sala dove era presente anche Simone Bardoni, il direttore artistico di Concorto.
La proiezione ci catapulta in uno spazio tematico vastissimo e ricchissimo di prospettive. 27 di Flóra Anna Buda è un disegno di Matisse riposto nello spazio sensoriale delle ansie e agitazioni che muovono la giovane protagonista alla ricerca di una propria autonomia. Snow in September di Lkhagvadulam Purev-Ochir invece è un paradossale e romantico coming of age di un giovane che di ritorno da scuola cammina per le strade della sovietica capitale della Mongolia, Ulan Bator. Uogos di Vytautas Katkus è una riflessione distillata sull’estate, le visciole e chi non c’è più e chi sogna di volare, mentre Ice Merchants di João Gonzalez è un’avventura tutta padre-figlio che intreccia sentimenti familiari e crisi climatica su vette altissime e strapiombi infiniti. Christian Avilés invece con La Herida Luminosa ci racconta la sua mitizzazione delle vacanze che i giovani inglesi fanno alle Baleari per prendere un po’ di sole e asciugare l’umidità dei loro sentimenti piovigginosi. La serata si conclude con Jill, Uncredited di Anthony Ing, una ricerca tra diapositive della comparsa più famosa del cinema inglese, che è il lavoro che ci lascia sospesi e pieni di domande.
Simone Bardoni interviene a fine proiezione insieme al curatore di Indocili e organizzatore di Tafano Cinema, l’instancabile Davide Perego, e i due ci raccontano delle difficoltà produttive dei cortometraggi e di come spesso, per la loro brevità, essi non ricevano la stessa dignità che viene riservata alle grandi narrazioni. È vero, e lo è soprattutto per le opere che non hanno impostazioni narrative canoniche, proprio come quella di Anthony Ing, che dopo varie vicissitudini, sono riuscito ad intervistare. Jill, Uncredited è una quest, un’investigazione attraverso repertori per trovare Jill Goldston, attrice che ha lavorato come comparsa ad oltre duemila produzioni audiovisive. Presentato nella sezione “Short Focus” alla Berlinale l’anno scorso, quest’opera per me è più una tavola di domande che una bacheca di risposte, e sono desideroso di capire.
Ciao Anthony, grazie per il tuo tempo. Come hai conosciuto questa figura, Jill Goldston?
«Ciao, grazie a te. Allora, tutto è cominciato perché ero interessato alla figura delle comparse nel cinema e alla loro rappresentazione. Scorrendo tra vari blog sono incappato in un thread che poneva l’attenzione su questa attrice inglese, Jill Goldston, che ha lavorato in così tante produzioni, non solo grandi, ma anche minori, e allora ho deciso che volevo rintracciarla.»
E come è evoluta la narrazione di Jill, Uncredited, a livello pratico?
«Sono riuscito ad avere il contatto di Jill Goldston e ho condotto qualche ora di interviste con lei, registrando la sua testimonianza come attrice e come comparsa, che è un ruolo particolare. Nel corso della sua carriera lei e suo marito hanno tenuto liste di tutti i lavori a cui ha partecipato, e nella maggior parte non è nemmeno menzionata.»
È un ruolo molto particolare quello delle comparse. Anche io ho lavorato come comparsa sui set e devo dire che è lo stesso lavoro faticoso degli attori che parlano e hanno battute, solo meno remunerato e meno considerato. Simone Bardoni a fine proiezione ha commentato il tuo lavoro mettendo l’accento sulle interviste. Perché, alla fine, hai deciso di non includerle nel montaggio?
«La decisione l’ho presa nella fase iniziale del montaggio. Volevo cercare la sua presenza sullo schermo, registrarla, e creare una narrazione che andasse al di là della sua testimonianza in quanto, guardando le sue interviste, trovavo che includere la sua voce avrebbe reso la narrazione triviale.»
Sono d’accordo con te. Viviamo in un’epoca molto visuale, e spesso le parole sovrastano inutilmente idee e ricezioni che solo le immagini possono suggerire.
«È una domanda o un’affermazione? Perché mi sembra più un’affermazione!»
No, è la prima parte della domanda. Ecco la seconda: questo è un filtro molto interessante che ti accompagna dall’inizio della tua carriera. Spiavo la tua filmografia e sono rimasto accattivato dal titolo di questa opera, che voglio assolutamente vedere, Day After Day. La sinossi è che Doris Day è intrappolata nei suoi film e non riesce ad uscirne. Vuoi dirmi qualcosa in più al riguardo?
«Day After Day è la mia prima prova da regista. Ero interessato all’idea degli attori che vengono trasportati dalla loro stessa filmografia. Procrastinando su IMDb mi sono trovato sulla pagina di Doris Day, e oltre ad accorgermi che ha fatto tantissimi film e poi a un certo punto non ne ha più fatti, mi sono reso conto che non ne avevo visto neanche uno. È quindi iniziato come espediente, e dopo aver visto i suoi film, ho proceduto nell’esplorare qualcosa che partisse dalla sua espressione sullo schermo e andasse oltre esso.»
Gli attori intrappolati nei loro personaggi. È vero. E infatti, se non sbaglio, questa cifra investigativa distingue anche un altro lavoro a cui hai preso parte, insieme a Charlie Shackleton, Beyond Clueless. Raccontami!
«Wow. Hai tirato fuori ricordi di una vita fa. Io e Charlie ci conosciamo da quando siamo adolescenti, e Beyond Clueless è il primo lavoro che ci ha fatto entrare nel cinema. L’idea era quella di analizzare come un determinato genere, ossia quello degli adolescenti e del liceo, molto prolifico negli anni Novanta e agli inizi del Duemila, abbia influenzato l’immaginario di una generazione.»
Fantastico. Spesso il cinema ha un’impostazione romantica e i documentari sul cinema hanno una visione post-romantica – sono sempre condotti sul fascino e carisma che un personaggio o una celebrità esercitano sul pubblico, e non interi immaginari visivi, sanciti da inquadrature e colori. La maggior parte di registi con cui mi trovo a parlare è più interessata a raccontare la prima realtà che la seconda, non trovi?
«Beh, la mia educazione non è proprio canonica. Non mi formo presso accademie di cinema. Ho fatto filosofia. Poi, se un mio lavoro è convenzionale o meno, sta agli altri giudicare.»
Ma è proprio questo che è interessante. Molte opere raccontano o vogliono raccontare qualcosa eccessivamente, e finiscono col non parlare a nessuno. Jill, Uncredited è il lavoro sul quale ho parlato di più, e mi chiedo se, oltre alla tua formazione accademica, non ci sia anche un’impostazione ‘democratica’, diciamo, che ti spinge a creare opere che invece di fornire risposte pongono domande al pubblico.
«Grazie! Jill, Uncredited voleva essere anche un’esplorazione sul ruolo di supporto, di soccorso, di una figura come quella delle comparse nel cinema. E infatti le poche voci che si sentono volevano tracciare questo filo tra l’importanza delle comparse e la loro somiglianza al mondo infermieristico, come è successo poi a Jill che figura molto spesso nel ruolo di infermiera.»
Sai, ho interpretato un piccolo ruolo da infermiere su un corto tempo fa, e ricordo questa frase che mi ha risuonato nel guardare Jill, Uncredited, che è «tutti sono indispensabili, nessuno è insostituibile». Tu hai fatto un focus su un personaggio che è sempre stato out of focus. Immagino che l’archivio che hai messo su è infinito, e che cercare Jill in mezzo a tutte queste persone sia stata un’impresa non di poco conto. L’hai presa un po’ come si cerca Wally?
«Effettivamente, a volte la ricerca era davvero straziante, perché sembrava non finire mai. E come è menzionato alla fine del film, le opere in cui appare che sono state selezionate rappresentano solo il 5% della totalità delle produzioni a cui Jill ha preso parte. In molte altre poi, anche se ci ha lavorato, non figura nel montaggio finale quindi ho dovuto anche guardare interi film dove alla fine mi rendevo conto che non c’era.»
A proposito di assenze e di non detti… Le produzioni a cui ha preso parte Jill sono per la maggioranza britanniche, e io non ne conosco molte. Hai considerato anche questo nella fase di montaggio, ovvero che uno spettatore che non conosce quei film potrebbe non comprendere pienamente la tua narrazione?
«Beh, all’inizio del montaggio molte mie scelte erano mosse da non detti che io capivo, perché molti film che figurano sono conosciuti qui e io li ho visti e rivisti. Poi, con l’evoluzione del lavoro, ho cercato di impostare una narrazione che potesse parlare a chiunque indipendentemente dal grado di conoscenza di quella data cultura cinematografica.»
E direi che ci sei riuscito, perché Jill, Uncredited è un’opera che ognuno può interpretare a modo proprio, e penso che sia questo che distingue qualcosa di intrinsecamente artistico da qualcosa di visualmente seducente. Grazie!
«Grazie a te!»
E ringraziando Anthony Ing, col quale non smetterei mai di parlare, ringrazio anche Tafano Cinema, Davide Perego, Carlotta Centonze, il Cinema Beltrade e tutti coloro che si sono impegnati ad organizzare una visione di opere che stimolano riflessioni e invitano a ripensare la canonicità dell’esperienza dell’essere spettatori. Indocili è una rassegna aperta, nel senso postmoderno e inclusivo del termine, e la selezione che quest’anno ha portato in sala è stata incautamente indocile. Ci rivediamo il prossimo anno!