di caterina
Nelle mie orecchie sento un riff di chitarra fluido, il basso inizia a scandire il ritmo come un cuore dal battito lento, mentre la voce di Bob Marley intona le prime parole: «I woke up in a curfew / O God, I was a prisoner too, yeah! / Could not recognize the faces standing over me / They were all dressed in uniforms of brutality, eh!». Davanti agli occhi parte una sequenza di immagini, una serie di video che si legano così strettamente alla musica da sembrarne la loro diretta conseguenza. Gruppi di persone, riconosco dei ragazzi, mettono a ferro e fuoco una città, si prendono le strade e le piazze, e i poliziotti accalcati intorno, predatori. Sono nella sala di un cinema di provincia, l’unico nella mia città, il punto comune per chi esce il Martedì sera e vuole posare le chiappe su un divanetto pieno di polvere, in una stanza buia e dall’odore stranamente familiare. È l’anello di congiunzione fra noi, quasi trentenni, i sessantottini con le scarpe da trekking e i gruppi di liceali. Io stessa sono stata studente qui dentro, tanto che ancora oggi temo di incontrare parti di me tra questi seggiolini e la macchina dei popcorn.

Sto rivedendo La Haine (del 1995, tornato in cartellone dopo trent’anni in un nuovo restauro), proprio «quello del tizio che cade da un palazzo di cinquanta piani». Queste parole sono anche la prima stringa di parlato del film, una storia di persone normali, di gente che cerca di vivere in pace, ma che il sistema non vuole accettare: gli estranei in cui ci riconosciamo, parafrasando Julia Kristeva[1]. Mathieu Kassovitz ha girato La Haine in bianco e nero, ha diviso la trama cronologicamente in orari precisi, e ha ambientato tutto tra la banlieue parigina e il centro città. Il risultato sembra uno strano ibrido tra un documentario e Toro Scatenato (dato confermato anche da quegli stessi liceali, seduti davanti a me), ed è anche uno di quei film in cui è difficile descrivere cosa succede. È un film di vibes, come si direbbe oggi, un po’ alla Under the Silver Lake o alla Dazed and Confused, se non fosse per la sequenza iniziale e per l’ultimo terzo, che danno alla storia la consistenza, appunto, di un film di Scorsese (magari proprio di uno dei suoi primi). Tre amici francesi, con buona pace di Le Pen padre (citato verso la fine), cercano di affrontare il pestaggio di un quarto – Abdel – da parte della polizia. L’aggressione provoca una serie di rivolte in tutte le periferie, riprese dalle iconiche sequenze all’immediato inizio del film, accompagnate dal sottofondo di Burnin’ and Lootin’ degli Wailers.

Dopo qualche minuto davanti allo schermo, però, mi succede qualcosa di strano. Mi accorgo che il bianco e nero caratteristico di La Haine è diventato improvvisamente colore. I lunghi viali alberati frutto della haussmannisation sono diventati gli edifici di New York, i prati dei campus alla UCLA, i palazzi di New Haven, Connecticut. I giovani parigini nello schermo entrano negli uffici, i poliziotti li ammanettano a terra. Gli studenti di Yale escono con delle fasce di plastica ai polsi. Eppure qualcosa è rimasto uguale. Persone in divisa, manganelli, braccia alzate per segnalare che siamo disarmati, cosa volete farci? Fermatevi. Non si sono fermati, però, quando a Pisa hanno visto un corteo di liceali disarmati, o quando a Torino hanno caricato un gruppo di manifestanti fuori dal Salone. Dentro, gli organizzatori facevano commenti e foto, interventi come se niente fosse. Per citare l’unico che a quei cortei ci è andato, Zerocalcare, «c’è un problema con il dissenso nel nostro Paese, da molti anni» poiché non siamo più abituati alla critica e a mettere in discussione ciò che ci viene detto dall’alto. Il dissenso è contenuto, è osteggiato, è trattato come una materia di importanza minore o come un incidente di percorso.

In questa nuova fase di guerra contro Gaza – tra i responsabili storici Israele, gli Stati Uniti, e anche noi in Italia – è diventato ancora più evidente il ruolo delle forze armate e del governo nel reprimere, spesso in modo violento, ogni forma di protesta per la liberazione della Palestina. Come abbiamo visto, gli esempi sono molti, troppi per dei Paesi che si definiscono democratici, eppure la via della repressione dura e violenta sembra essere ancora l’unica risorsa a cui ricorrere. Fare la voce grossa, alzare gli scudi. Rivedere La Haine nei cinema oggi è stranamente inquietante, non è facile accettare che in trent’anni la repressione del dissenso sia ancora così violenta, la negazione dei diritti da parte dello Stato ancora così evidente e bruciante. In un’altra scena iconica, girata nel bagno di un pub con un sapiente gioco di specchi, Vinz – Vincent Cassel – riassume il cuore (e anticipa il finale) del film: siamo stanchi del sistema. Già trent’anni fa, dunque, questa era l’insofferenza verso un potere troppo schiacciante, la reazione a dinamiche di repressione già allora insostenibili e malsane.

«Oh stop them! Give me the food and let me grow!», prosegue Bob Marley. Le immagini dei parigini nelle banlieue continuano, il bianco e nero si fa più offuscato, come se l’occhio stesso della cinepresa fosse stato pestato dalle botte e reso cieco dal fumo di lacrimogeni. Di nuovo, mi trovo in una realtà parallela: le immagini non sono più quelle sullo schermo, di Parigi devastata, ma quelle di Gaza e Rafah, documentate da motaz azaiza, di bambini moribondi negli ospedali (se così possiamo chiamarli), di persone senza acqua e senza cibo. Mentre nelle nostre città chi protesta è manganellato dalle forze armate, in Palestina le persone non sopravvivono alla violenza degli eserciti.
È difficile guardare un film così e rendersi conto che in trent’anni il problema con il dissenso non è ancora stato risolto, che accettare tacitamente e non schierarsi è ancora l’unico comportamento ritenuto lecito. D’altra parte, in quella scena iconica al bagno, gli specchi ci dicono molto sul rapporto tra personaggi e spettatori, tra l’interno e l’esterno: ti vediamo anche se credi che non sia così, anche se fingi che non sia così, come quegli ospiti al sicuro tra le mura del Lingotto. «All that we got, it seems we have lost / We must have really paid the cost», canta Bob Marley, mentre nella mia home di Instagram vedo i post sulla Nakba, di cui ogni 15 maggio si commemora l’anniversario ma anche la continuazione, perché nella realtà la catastrofe non è mai finita. «Weeping and a-wailing tonight (but where?)», dove si va a piangere, se non c’è più nulla intorno?

In tanti anni, La Haine è ancora un film importante per riflettere sui problemi – enormi – con il dissenso, con l’esclusione delle voci che non danno ragione a chi è al vertice, con l’imposizione di un solo lato nella storia. Da anni, e in particolare ancora dal sette ottobre, c’è chi lotta affinché la storia mostri tutti i suoi lati, facendo sentire e vivere il dissenso – un dissenso contrappuntistico, per citare Edward Said[2]. La foto in cui protesta per la libertà del suo Paese sembra ancora una volta scattata l’altro ieri, in un campus qualunque, tra le vetrate del Salone o sul set di Kassovitz.

«How many rivers do we have to cross / Before we can talk to the boss?», quanto a lungo potrà durare? Quanti altri manganelli serviranno, prima di accettare il cambiamento che questo dissenso sta portando con sé? Si dice che il problema non è la caduta, ma l’atterraggio. Guardando La Haine dopo dieci anni, al suo trentesimo anno in sala, forse siamo arrivati all’impatto.
[1] Kristeva, J. (1991). Strangers to Ourselves. Translated by Leon S. Roudiez. New York: Columbia University Press.
[2] Said, E. (1994). Culture and Imperialism. New York: Knopf Doubleday Publishing Group.