Di che cosa parliamo, quando parliamo di “Challengers” di Luca Guadagnino? Abbiamo provato a mettere insieme, in questa sorta di tavola rotonda, pensieri, parole, opere, omissioni e tutto quello che ci è passato per la testa durante (e dopo) la visione del film. Prendete sul serio queste nostre parole, ma con moderazione.
giulia
Che bello quando sei al cinema e perdi la cognizione del tempo, desiderando che ogni scena del film che stai guardando non sia l’ultima. Che bello anche che quando poi, inevitabilmente, il film finisce e il primo pensiero che ti passa per la testa è: devo dire a tutti di guardarlo, e devo riguardarlo anche io. Questo è esattamente ciò che mi è venuto in mente durante i titoli di coda di Challengers di Luca Guadagnino – titoli di coda che hanno tenuto l’intera sala a sedere fino all’accendersi delle luci, un po’ grazie alla coinvolgente colonna sonora, un po’ perché un rilascio di adrenalina serviva proprio a tutti. Non mi interessa se il tema del triangolo amoroso sia già stato affrontato più e più volte nel cinema in passato, neanche mi interessa che lo stesso si possa dire di storie che raccontano i rapporti umani in modo veritiero, rappresentando le diverse sfaccettature senza nascondere imperfezioni e difetti. È vero che la sceneggiatura di Challengers, scritta da Justin Kuritzkes, parte da qui, ma il film nella sua completezza va oltre, regalando (almeno a me) una delle visioni più divertenti e accattivanti degli ultimi tempi.
Io e Guadagnino abbiamo uno strano rapporto. Lo considero da sempre uno dei migliori, nonostante non tutti i suoi film mi abbiano convincono a pieno. A questo giro però me lo sentivo che le carte in tavola avrebbero portato a qualcosa di vincente. Ho trovato Zendaya, Mike Faist e Josh O’Connor egualmente perfetti nei loro rispettivi ruoli, sia per quanto riguarda la rappresentazione dei singoli personaggi che, soprattutto, per il modo in cui hanno gestito l’interazione tra le varie parti. Le loro storie non sono di fatto così complesse se uno si ferma a riflettere, stiamo parlando di persone che nella loro vita hanno conosciuto il tennis e poco altro, ma il modo in cui le diverse interiorità sono rappresentate, girando sempre intorno al tema centrale e ricorrente dello sport, rende Challengers interessante dall’inizio alla fine. Una vera e propria partita giocata fino all’ultimo secondo.
Oltre alle singolari scelte direttoriali che hanno impresso nella mia memoria determinate scene (no spoiler, ma spero sia accaduto lo stesso per molti di voi), il mio aspetto preferito di Challengers sta nel fatto che ognuno dei personaggi è unito agli altri due da un legame che, nonostante decenni di tensioni, rimane indissolubile. Tashi (Zendaya), apparentemente unico oggetto del desiderio che manderà in confusione i due ragazzi dal primo istante in cui la vedranno giocare sul campo, si rileverà, alla fine, a sua volta incastrata nel rapporto unico nel suo genere che Art (Mike Faist) e Patrick (Josh O’Connor) non hanno mai perso. Tutti e tre con i loro diversi difetti e pregi, dipendenti gli uni dagli altri senza mai ammetterselo davvero, riusciranno sul finale – faticosamente e con sacrifici – a capirsi completamente, fermando per qualche attimo il mondo esterno, insieme. Una vittoria per tutti, ma stiamo sempre parlando di Tennis?
virginia
Challengers arriva in Italia con qualche mese di ritardo rispetto a quando doveva, inizialmente, arrivarci. Con buona pace di Alessandro Barbera, il film non ha aperto la scorsa edizione della Mostra del Cinema di Venezia ed è stato distribuito in sala a ridosso degli Open BNL al Foro Italico, ma nessuno ha sfruttato questa mossa di marketing. Challengers è un bel film sportivo, romantico, che però ogni tanto scade nel didascalico: «una partita a tennis è come una relazione, è come se in quel momento stessimo dichiarando il nostro amore l’una nei confronti dell’altra», spiega Tashi, interpretata da Zendaya, riguardo una partita contro la sua acerrima nemica, come se lo spettatore fosse tanto stupido da non aver capito la metafora dopo quaranta minuti buoni di storia. I personaggi interpretati da Mike Faist e Josh O’Connor, rispettivamente Art Donaldson e Patrick Zweig, sono due giovani promettenti stelle del tennis, troppo egoriferiti perché possa interessare loro qualcosa che sia diverso dal primeggiare l’uno contro l’altro. Il tennis è uno sport borghese dai tempi dei tempi e questo si riflette in maniera piuttosto chiara sulla traiettoria della carriera di entrambi i protagonisti maschili; due giovani di buona famiglia, che si sono conosciuti in una delle tante academy quando erano piccoli, non hanno un vero interesse nel vincere per costruirsi una carriera – al contrario di Tashi, personaggio interpretato da Zendaya, che una academy non se l’è mai potuta permettere e prende molto sul serio la sua attività sportiva.
Art e Patrick, due personaggi spaventosamente modellati sui due illustri precedenti di Julio e Tenoch, protagonisti di Y tu mamá también di Alfonso Cuarón, si «contendono» la stessa ragazza senza accorgersi troppo che Tashi è solo una figura che si frappone tra il vero amore – inconsapevole – tra i due. La coppia di protagonisti, rinominati dal pubblico Fire and Ice quando giocava insieme nelle partite doppie giovanili, è composta da due ragazzi immaturi e “piccoli” fino alla fine del film; mentre Patrick decide di abbandonare progressivamente quella che potrebbe essere stata una grande stagione (o carriera) tennistica solo perchè si mostra svogliato, Art diventa succube della moglie-allenatrice Tashi, in nome di un amore che si è spento molto tempo prima e che gradualmente ha assunto dinamiche più materne che passionali. Art è un bambino piccolo in cerca di rassicurazioni, ma Tashi non è in grado di dargliene e questo porta a un punto di non ritorno all’interno della relazione tra i due, che “esplode” la sera prima della finale del torneo Challenger di La Rochelle. Si tratta di un torneo secondario, ma che vede il giocatore scontrarsi contro il vecchio amico Patrick; la sera precedente alla partita Art scoppia a piangere, Tashi tiene la sua testa tra le mani: l’irrisolto col materno finalmente è venuto a galla. Guadagnino ha dichiarato a più riprese che la sua principale fonte di ispirazione, per questo film, è stata Bertolucci, ma ho deciso di crederci il giusto. Non perchè la storia ruota attorno a un menage à trois (che poi, si parla davvero di questo? Tashi e Art sono marito e moglie, con alti e bassi) allora necessariamente ricorda The Dreamers. Alcune scelte registiche sono stucchevoli (ma perchè quello schermo sdoppiato alla fine, durante il match, come si vede in Wii Sports?) e altre, invece sono bellissime (il campo da tennis di vetro!); è un film di due ore dal prologo lunghissimo (poteva essere accorciato) ma, tutto sommato, poteva andare peggio. Poteva piovere, e la partita sarebbe stata rimandata.
pavel
Avevamo davvero bisogno di una guadagnizzazione del mondo del tennis?
No, ma questa nuova versione firmata Lacoste di A qualcuno piace caldo, nel quadro attuale del proibizionismo ideologico, del borghesismo sportivo e dell’idolatria verso uomini-che-fanno-cose, funziona e anche troppo. Guadagnino esce dagli ultimi spot pubblicitari del prêt-à-porter a cui ci aveva abituato, e con uno sguardo deciso e un tocco preciso ci tira da una parte all’altra del campo in un torneo di potere e seduzione profondamente ambizioso. Toni stupidamente erotici e ritmi insolitamente serrati intellettualizzano il pensiero stupendo, naturalizzato statunitense, del nostro esteta italiano, che si vede ha ricevuto anche fin troppi inviti a Wimbledon ultimamente. Challengers è il perfetto capriccio estivo dove alla fine nessuno esce sconfitto perché, nel gioco della competizione, si tratta solo di palle.
cesare
Che sia il nome di un piccolo torneo qualificatorio per i grandi Slam di tennis o la traduzione in inglese di “sfidanti”, il penultimo (o terzultimo) film di Luca Guadagnino sembra apparentemente parlare di tennis ma forse parla di molto altro. Il tennis c’è, ma quello che vediamo non è la classica partita tra due giocatori, visto che sono tre in questo caso. Se volessimo analizzare e allo stesso tempo esprimere un’opinione riguardo a questo film l’impresa può sembrare esteriormente semplice, ma in realtà, come il tennis, si può vederlo in varie prospettive. La prima osservazione che possiamo cogliere dal progetto “guadagninano” è riguardante al particolare (o non troppo, alla fine) triangolo tra i principali protagonisti del film: Art, Patrick e Tashi interpretati rispettivamente dalle ormai superstar hollywoodiane Mike Faist, Josh O’Connor e Zendaya (produttrice del film insieme al regista). Una partita a tennis giocata con tre giocatori, tutti e tre delle giovani promesse all’inizio, poi succede qualcosa di terribile per uno di loro e la partita allora sì che può cominciare. Il film, infatti, parte proprio con la partita tra due di loro, infuocati e glaciali allo stesso tempo, osservati meticolosamente dal “terzo in-comodo” (?) che dagli spalti dirige, o cerca di farlo, gli altri due.
Troppi discorsi senza senso non portano a nulla, ma alla fine un ménage cinematografico dove è che deve portarti se non in quel territorio tanto misterioso quanto affascinante che è l’attrazione reciproca, il sesso, il sudore, l’amore? Forse è proprio quest’ultima parola a rappresentare la summa dell’intero film e poi anche di tutta la filmografia di Guadagnino. Ma come è questo amore? Personalmente l’ho trovato elettrizzante, pop, bello, palpitante come la colonna sonora che ci accompagna incessantemente nel viaggio libidinoso di tutti e tre i protagonisti. Ma è anche un amore sincero, spiazzante, forte come del resto è la protagonista, la “maneater” del film, Tashi Duncan, la vittima sacrificale di un gioco (vero e metaforico) dove lei non è solo la giocatrice insieme agli altri, ma è anche, e soprattutto, la guida, il faro che illumina una traiettoria, come quelle impossibili delle palline da tennis sparate ovunque in quel campo che sì, cliché, forse è la vita. Soffermandoci su questa particolare caratteristica del personaggio di Tashi, la giovane promessa, l’atleta invincibile, quel Super-Uomo che menomale è donna, la possiamo rintracciare perfettamente in tanti altri personaggi guadagninani.
Non è un caso che un protagonista, il più delle volte maschile in un film diretto dal regista, viene per certi versi proprio illuminato, salvato, da un personaggio femminile nella sua condotta della vita, illuminandogli in lui, aspetti nascosti che lo fanno diventare ciò che è, o ciò vorrebbe essere e senza delle quali non sarebbe in grado di raggiungere. Marzia (Esther Garrel) in Chiamami col tuo nome, Penelope Lainier (Dakota Johnson) in A Bigger Splash, Ida Marangon (Maria Paiato) in Io sono l’amore sono solo alcune delle particolari protagoniste di film di Guadagnino, che a mio parere, riescono ad esprimere attraverso il loro agire e il modo in cui si rapportano con altri personaggi, maschili in particolare, una capacità decisionale forte e al tempo stesso fari nel viatico drammaturgico dei personaggi stessi. Ma questa è solo una piccola digressione nel cinema multistrato del regista italo-algerino. Per dirlo in altre parole, però, Tashi non si è infortunata perché ha commesso un errore sul campo (e quindi nella vita), ma perché ha capito che si era ormai inserita in una dialettica troppo più grande del tennis stesso: una dinamica, una sfida, una relazione, quella tra Art e Patrick. Una relazione, a detta della protagonista, che è l’elemento fondante del tennis inteso come sport; quella dei due protagonisti maschili non si basa solo sulle loro caratteristiche tecniche sportive o su chi è più forte, più bello o più bravo, bensì sulla loro vera identità che viene sempre “giocata” sul filo del rasoio o, meglio ancora, sul filo della rete che li separa (o almeno è quello che ci fa credere Luca Guadagnino).
Ritornando al film e a ciò di cui penso dal punto di vista di cinefilo e, come credo si sia capito, ammiratore di Luca e del suo cinema, il pensiero è un po’ contorto. Il lavoro che il regista ha compiuto nel costruire e decostruire il ménage cinematografico è sicuramente da apprezzare e ammirare. Realizzare solamente al secondo film, prodotto interamente da uno studios americano e con grandi star, un’opera capace di esprimere pop e autorialità non è da poco. In primo luogo perché l’occhio cinefilo di Guadagnino c’è e si sente, letteralmente: oltre alle palle da tennisimprobabili, i movimenti a seguire o anticipare i protagonisti, i jump cut, le prospettive impossibili che solo il cinema può regalare, Luca dimostra di conoscerle e le usa tutte. Sicuramente è un grande prodotto, un prodotto pop ripeto, che già prima della sua uscita nelle sale aveva emanato quella sua aurea elettrizzante e vibrante. A Venezia avrebbe fatto ballare tutta la sala Grande e non solo… e alcinema, dopo alcuni mesi, si è comunque conservato tale magnetismo.
La mia preoccupazione è il dopo. Cosa sarà Challengers tra cinque, dieci o vent’anni? Il confronto con Chiamami col tuo nome è inevitabile, ma non solo. L’unica pecca, se così la possiamo definire, è per me rintracciabile in questo aspetto: tale magnetismo, tali vibrazioni che tutti e quanti i protagonisti riescono ad emanare per tutta la durata del film e oltre, quanto potrà durare? Dove andrà a finire? Il film del 2017 è un caso a parte ma riesce a spiegare bene ciò che per me Luca Guadagnino appare come cineasta: la sua capacità di scolpire nella realtà una nuova realtà, quella cinematografica, il cinema, andando anche a determinare un certo “brand” (anche se è a dir poco orrendo definire così l’approccio di Guadagnino). In Challengers il cinema si sente e si vede, ma forse troppo, ha osato talmente tanto che il referente della realtà personalmente l’ho perso dall’inizio. Sarà stato sicuramente il grande progetto che avrà sentito alle sue spalle, una Hollywood sicuramente esigente, saranno state le ormai conosciute e apprezzate star a livello planetario che hanno costellato il film, sarà anche, come Roy Menarini nella sua video recensione sottolinea riguardo la decostruzione geometrica attuata dal regista, per rappresentare e raccontare il tennis traslato in una storia d’amore e viceversa, ma Challengers parla troppo di cinema e poco di realtà. Non che i film di Guadagnino e in generale, per essere belli da un punto di vista personale, devono essere attaccati o avere riferimenti alla realtà in maniera così pregnante: Challengers alla fine parla di tennis come di amore, relazioni e molto altro. Il merito è sicuramente riconosciuto anche per aver reso particolare ed innovativo la narrazione e rappresentazione di uno sport che siamo soliti vedere da precisi e calcolati punti di vista. Oltre a questo, l’esercizio di Challengers ci insegna che il cinema, allora, come oggi, esiste e forse non eravamo più abituati a vederlo così, alla massima potenza, e l’unica reazione che possiamo avere è un grande urlo/orgasmo che, insieme a Tashi, lanciamo alla fine del film.
alberto
L’ultimo lungometraggio del regista italiano Luca Guadagnino esplora il rapporto di tre promesse americane del tennis tra intrecci amorosi, conflitti emotivi e scontri sportivi nel corso di circa tredici anni. Art (Mike Faist) e Patrick (Josh O’Connor) sono due giovani tennisti che vivono un’amicizia complicata, segnata dalla competizione sia sul campo da gioco che in amore. Infatti entrambi hanno una connessione profonda con Tashi (Zendaya), un’intelligentissima e talentuosa giocatrice che mette sempre al primo posto lo sport, compromettendo anche le relazioni tra i tre. I personaggi condividono alcuni aspetti caratteriali, anche se superficialmente si presentano come tre entità diverse e ben delineate. Infatti possono essere arroganti o timidi, succubi o dominanti, ma alla fine conoscono i propri obbiettivi e sanno bene che essere impietosi deve essere un forte punto comune per poter sopravvivere nel loro mondo. Guadagnino è cauto nel volgere l’attenzione alla parte più erotica del film e ha speciale riguardo per il rapporto, quasi omoerotico, fra Art e Patrick, i quali rivaleggiano per vincere l’amore di Tashi. La scena del bacio tra loro tre è sicuramente uno dei momenti più importanti del lungometraggio, poiché viene focalizzata l’attenzione sull’episodio più direttamente sessuale, in termini sia di lunghezza che di design visivo e narrativo.
La regia non è invisibile, infatti durante film sono presenti tecniche di ripresa molto elaborate come l’utilizzo smodato del “frame slowing”, zoomate senza scopo apparente e riprese in “point of view” troppo artificiose. Un ulteriore dettaglio che allontana lo spettatore da un taglio di film più realistico è l’energetica colonna sonora curata da Trent Reznor e Atticus Ross. Questo tipo di musica techno riesce a far salire vertiginosamente la tensione nelle scene clou, ma in certi momenti può sembrare non appropriata o necessaria, rendendo così alcuni passaggi più simili a quelli di un videoclip musicale. Comunque certamente l’elemento più potente del film è l’ineccepibile recitazione degli attori, sempre credibili e mai fuori luogo, cosa fondamentale per mantere l’equilibrio di una pellicola di questo genere.
francesca
Sensi, corpi, desideri: Luca Guadagnino ha costruito negli anni un cinema come esplorazione dell’identità e del rapporto con l’altro. Se già nel precedente Bones And All intimità e legami viscerali erano stati portati in scena attraverso la lente del cannibalismo, questa volta è il turno del tennis: Challengers, infatti, non è affatto un film sullo sport di Wimbledon e del Roland Garros (anche se proviamo un certo compiacimento nel vedere dei fulgenti Josh O’Connor, Mike Faist e Zendaya in campo con i loro completini firmati), ma semmai il tennis è un pretesto. Un pretesto per parlare, ancora una volta, di relazioni umane. Patrick (Josh O’Connor) e Art (Mike Faist) sono amici d’infanzia, cresciuti insieme nella stessa accademia di tennis. L’incontro con Tashi Duncan (Zendaya), giovane promessa di questa disciplina, del cui fascino entrambi cadranno vittima, sarà decisivo per le sorti dei nostri personaggi. Nessun ménage à trois (vi si allude ma Guadagnino è avaro e lascia tutto all’immaginazione), Tashi, come afferma fin da subito, non è “una sfascia-famiglie”: eppure, nel rapporto di Patrick e Art qualcosa si spezza, e la sincerità del loro affetto lascia spazio a competizione, gelosia e ossessione.
La narrazione si configura come una partita a tennis, in un rimbalzo costante tra passato e presente, aspetto che alimenta la tensione (complice di ciò la martellante colonna sonora firmata Trent Reznor e Atticus Ross) per prepararci ad un ultimo grande match: la partita finale – sul campo e nella vita – tra i due contendenti. Con Challengers, ritorna un Guadagnino nella sua versione più provocatoria e volutamente smaccata, in un gioco fatto di perversioni e desideri, in una tensione costante tra anelito del successo e autodistruzione.