di alberto
Una serie composta da sei episodi, divisa in due parti, pensata come un “concept album” e proiettata nella sua interezza sul grande schermo. Cosí è presentato al cinema Kino International per la settantaquattresima edizione della Berlinale l’ultimo lavoro dei Fratelli D’Innocenzo, un’opera che racconta l’estrema solitudine, la misantropia, l’incomprensione, il tradimento e l’amicizia.
La costruzione del racconto segue i canoni del “true crime” e come protagonista ha un poliziotto: Enzo Vitello (Filippo Timi), antieroe veramente cinico, ma amorevole solo nei confronti di sua figlia Ambra (Carlotta Gamba). La prima parte della serie è strutturata alternando l’utilizzo di flashback e flashfoward, subito mettendo in chiaro le tremende condizioni in cui versa il personaggio principale, drogato e alcoolizzato, e il caso incredibile che da tempo sta cercando di risolvere. La nemesi di Enzo è un serial killer senza identità che ammazza brutalmente civili innocenti e lascia sulla scena del crimine lettere scritte a penna in cui racconta le modalità delle uccisioni, facendo anche intendere chiaramente il proprio totale disprezzo per la vita e per l’umanità in generale. Le indagini proseguono senza risultati e, nonostante la lunga serie di omicidi, la polizia brancola nel buio.
La serie ha un’estetica cupa e gotica, influenzata dal true crime internazionale. Le baracche abbandonate in mezzo a sconfinati campi di erba non tagliata, gli oppioidi contrabbandati, i labirintici complessi di palazzetti fatiscenti accalcati come le celle di una prigione e la penosa stazione di polizia sono tutti comunque elementi tragicamente riconducibili al suburbio italiano economicamente depresso. Non si parla necessariamente di borgate, ma di un tipo di periferia molto più familiare e moderno che avvolge il panorama e che schiaccia le vite dei vari personaggi. È rilevante anche la scelta estetica di girare in pellicola 16 mm così da rendere l’atmosfera ancora più cupa e confusa.
Tra i secondari si distingue il migliore amico, nonchè capo, di Enzo Vitello, Antonio Bonomolo (Federico Vanni): un uomo profondamente deluso dalla vita, goffamente nevrotico, soffocato dai rimorsi e che non ha il coraggio di uccidersi poichè trova nel suo lavoro, in cui è molto capace, la ragione per andare avanti. Ambra, flglia di Enzo, è schifata dal padre, lo odia e non comprende le ragioni del suo abbandono quando era piccola. Inoltre un’altra figura di fondamentale importanza è quella di Fabio Bonocore (Gabriel Montesi), un giovane, nuovo arrivato nella squadra di polizia, che è pronto a tutto pur di arrivare in cima alla gerarchia. Le prove attoriali sono splendide e a tutti è dato il tempo per brillare in questo mondo costruito meticolosamente dai registi. Non esistono buoni, tutti sono troppo sporchi, soprattutto le forze dell’ordine, a causa delle nefandezze compiute nel corso della vita.
I personaggi sopravvivono a quest’ultima, passando ora dopo ora, anche perché parlare di “giorno” sarebbe quasi troppo, cercando di resistere un altro po’, mentre aspettano un miracolo, la prova di una possibile redenzione. Il primo tempo lascia confusi e disgustati dalle situazioni obbrobriose, facendo rimanere in sospeso lo spettatore in un limbo tra amarezza e dispiacere. Successivamente, nel secondo tempo, il thriller si trasforma in una sorta di storia di rivalsa amorale. Enzo è solo, ma ha finalmente una pista ed è capace di fare qualunque cosa, anche perché non gli rimane più niente da perdere. Il finale è l’esplosione della tensione accumulata: horror, dramma, comicità grottesca e splatter si uniscono in modo simbiotico e mai scontato.