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di costanza

Critica a Barbie senza mai aver visto Barbie.

Tutte le volte che si parla di cinema questo settembre, si parla immancabilmente di Barbie (2023) di Greta Gerwig. Al ritorno dalle vacanze le persone si chiedono vicendevolmente se l’hanno visto e cosa ne hanno pensato. Succede lo stesso con Oppenheimer (2023, Christopher Nolan) ma, da persona che non ha ancora visto né l’uno né l’altro, noto che Barbie fa chiacchierare molto di più. Forse è per tutta la pubblicità a cui siamo stati soggetti prima e dopo l’uscita del film, ma sono più propensa a vedere tutta la storia come un gigantesco fenomeno pop, che ha preso spazi anche molto lontani dal mondo del cinema e che va aldilà della pubblicità.

“Barbie” di Greta Gerwig (Credits: Warner Bros.)

Quando ascolto le persone che ne parlano, amici o compagni di università, noto che, anche quando il film non è piaciuto, ci si confronta su una lista di scene “iconiche”. Tutti hanno in qualche modo una loro personale lista di scene che non riescono a dimenticare. Di solito, quando iniziano a discutere del film, una delle prime cose che chiedono al loro interlocutore è se anche lui è rimasto colpito da quello che ha detto Margot Robbie in quella scena in cui eccetera eccetera. A quel punto, ammetto di cercare di pensare ad altro e dissociarmi dalla conversazione, per non avere spoiler. Finora ho sentito molte più aspettative deluse che soddisfatte e la critica mossa più spesso è che il film risulti troppo superficiale e non tratti certi argomenti prendendo il giusto spazio. La tendenza delle persone che la pensano così è quella di liquidare il film come un progetto fallito, un tentativo audace, ma in ultima analisi poco efficace. Io, da fuori, mi sono fatta un’idea molto diversa della situazione e penso che Greta Gerwig, la regista, sia un genio. 

“Barbie” di Greta Gerwig (Credits: Warner Bros.)

Per dimostrarlo dobbiamo però fare un passo indietro a questo punto e prendere un’intervista di Greta Gerwig nel 2020. Vogue Usa all’epoca le chiese un’intervista per la miniserie 73 questions su YouTube: un format di successo in cui Joe Sabia gironzola in casa di una donna famosa e, mentre prendono un caffè o lei si prepara per prendere un volo intercontinentale, lui le fa una serie di domande a raffica sulla sua vita e suoi gusti personali. Le domande passano da un tono serio a uno scherzoso e le donne hanno pochissimo tempo per rispondere (il prodotto finale non ha tagli: è una ripresa continua che dura di solito 8-9 minuti e le domande totali, come indica il titolo, sono 73, quindi 9 domande al minuto, in media). Si tratta di un format molto dinamico, che dà al pubblico un’idea di familiarità, innanzitutto perché viene girato in casa dell’intervistata e la si vede fare azioni quotidiane (come preparare un caffè o scusarsi per una pila di libri in disordine sul bancone della cucina) e inoltre perché le domande vengono poste in maniera incalzante, mettendo fretta, con l’idea che la persona venga messa all’angolo dal tempo e dal fatto di essere impegnata in altre azioni e risponda di conseguenza in maniera più sincera. 

Greta Gerwig
Greta Gerwig in “73 Questions with Vogue”

La verità è che le interviste sono costruite ad hoc per fare promozione per un film o un album musicale in uscita e le case sono ordinate e presentate come se venissero direttamente dalle pagine di una rivista di arredamento (tanto è vero che un noto magazine del settore, Architectural Digest, ha una serie simile su YouTube, Open doors, in cui fa un tour delle case di e con persone famose). Le protagoniste hanno probabilmente provato qualche volta il giro della casa con i loro pubblicitari e sono state istruite su cosa dire e come dirlo (e possibilmente non ripetere l’errore di Dakota Johnson con i lime). Tutto questo contesto ci torna utile per Greta Gerwig per analizzare la sua intervista e l’idea di sé che lei vuole dare in quei sedici minuti di chiacchierata. Un’idea, va detto, molto precisa. 

Il video risale al 30 gennaio 2020 e ha chiari fini pubblicitari. Piccole donne, riadattamento cinematografico ad opera di Gerwig dell’omonimo romanzo di Louisa May Alcott del 1868, era uscito negli Stati Uniti il 25 dicembre 2019, ma veniva distribuito in moltissimi Paesi oltreoceano proprio a partire dal 30 gennaio 2020. Ad eccezione della prima domanda, i due minuti iniziali riguardano solo quel film e, in generale, Gerwig usa la pellicola durante tutta l’intervista per rispondere con degli esempi alle domande più tecniche sul suo lavoro. In totale, su 73 domande, 11 riguardano il film direttamente e almeno altrettante ne parlano indirettamente, perché la conversazione verte spesso sul mestiere del(la) regista. 

“Piccole donne” di Greta Gerwig (Credits: Warner Bros.)

La prima cosa che salta all’occhio, per chi conosce la serie, è che il video di Greta Gerwig non è stato girato in casa sua, ma negli Studios della Sony a Los Angeles. Prima di lei solo Anna Wintour, direttrice di Vogue, si era fatta riprendere in ufficio, nella sede newyorkese della rivista, come se il pubblico potesse seguirla in un normale lunedì mattina (o in uno spin-off de Il diavolo veste Prada). Lo scambio comincia proprio con una domanda sul motivo per cui la chiacchierata venga girata lì e la risposta è che Gerwig deve andare a uno screening della Sony e concederà all’intervistatore giusto il tempo che le ci vorrà per arrivare allo studio giusto. È un inizio che a mio parere dice già molte cose: presenta la regista davvero impegnata, nel mezzo di una pausa. Addirittura, talvolta, la si vede mettere fretta all’intervistatore per proseguire la camminata dopo che si sono fermati in un punto per qualche secondo di troppo. 

“Piccole donne” di Greta Gerwig (Credits: Warner Bros.)

Visto che la serie nasce per far vedere le case delle protagoniste, colpisce che il video sia ambientato altrove e fa supporre che significhi qualcosa. Le altre intervistate in questa serie spesso cercano di essere relatable, parlando di aspetti della loro vita privata che mostrino come siano, in fondo, “delle persone vere”. Nel video di Gerwig quell’elemento è presente più per come si presenta lei caratterialmente, per il modo in cui risponde, come guarda in camera e si ingarbuglia quando parla troppo velocemente. Greta è una donna come tante, che fa binge watching di Love Island UK e ha visto Cantando sotto la pioggia mille volte, ma contemporaneamente delinea precisamente le sue ambizioni. A volte risponde con ironia, fa una battuta irriverente, ma guardando bene si può notare che ci nasconde sempre qualcosa, una visione ben precisa. Per esempio, quando l’intervistatore le chiede se le piacerebbe fare un altro film tratto da un libro, lei risponde che vorrebbe fare il riadattamento della Bibbia… ma dal punto di vista di tutte le donne. 

Greta Gerwig
“Piccole donne” di Greta Gerwig (Credits: Warner Bros.)

Nell’intervista gli accenni alla vita privata sono minimi e tutti alla fine: al minuto dodici le viene chiesto cosa abbia osservato durante il suo primo anno di maternità e Gerwig fa una considerazione generale sui neonati; poco dopo, quando cita il suo compagno, lo chiama per nome e cognome, Noah Baumbach, senza specificare il loro legame sentimentale, presentandolo solo come suo collaboratore. Lo cita in totale due volte, al minuto tredici e poco dopo (chiamandolo solo “Noah”) per il resto l’intervista parla solo di lei, non come donna, ma precisamente come regista. Sembra proprio che l’idea sia dare a Gerwig la credibilità di un lavoro che solitamente è prettamente maschile. 

“Piccole donne” di Greta Gerwig (Credits: Warner Bros.)

L’intervistatore la bombarda di domande su quale sia la migliore scena che abbia mai diretto, quale sia l’aspetto più difficile da riprendere con la macchina da presa, quali siano i suoi progetti futuri e lei risponde in modo articolato, appassionato, mostrando che ha riflettuto su quelle cose e non sta rispondendo a casaccio. Un momento importante per capire qualcosa su di lei è quando le vengono fatte alcune semplici domande su quali siano le sue autrici preferite. Gerwig delinea una puntuale costellazione di nomi: Virginia Woolf, Joan Didion, Jane Austen. Le sue risposte mostrano che conosce le grandi autrici del passato, ma è in grado di vederne i punti deboli (critica Austen per le aspettative che ha creato in lei nei confronti degli uomini e delle relazioni) o di usarle come base per dire qualcosa al pubblico del presente (specie con il suo riadattamento cinematografico di Piccole donne di Louisa May Alcott). Il suo è un progetto che va oltre la promozione del suo ultimo film e lo si vede molto bene in tre momenti chiave, innanzitutto quando parla di Virginia Woolf: «what I love about her… so many things… I love her writing, but also, she was included in the canon because she was just better than anyone… And I feel like they thought “Oh, well, that lady… she’s a lady, but she’s really great».

Greta Gerwig
“Piccole donne” di Greta Gerwig (Credits: Warner Bros.)

In seguito quando le viene chiesto come mai sia importante avere un certo stile nel modo di vestire quando si fa il lavoro di regista, a cui lei risponde ironica: «to communicate all of my power (chuckling)». Infine quando deve dire cosa le piacerebbe che le venisse chiesto più frequentemente nelle interviste: «I would… I hope to get asked more… I mean it would to also correspond with my life. I hope somebody asked me “What does it feel, like, to win so many Oscars?”». C’è in lei un progetto di grandezza, un obiettivo più o meno velato, qualcosa che in quel momento sta ponderando da lontano, ma che vede come tangibile e dichiara orgogliosa alla fine del video, per rispondere alla classica domanda sui progetti futuri: «I’ll be writing a picture about Barbie. A Barbie picture».

Greta Gerwig
“Piccole donne” di Greta Gerwig (Credits: Warner Bros.)

Per capire come mai mi sembra così rilevante questo video di soli sedici minuti, per analizzare quello che Greta Gerwig è riuscita a fare, devo ricostruire un po’ di contesto. All’epoca la regista aveva già raggiunto una certa popolarità, grazie al successo del suo primo lungometraggio da solista, Lady Bird, che nel 2018 aveva ricevuto 5 candidature agli Oscar (miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura originale, miglior attrice protagonista e miglior attrice non protagonista), senza vincere però nessun premio. Il film aveva incassato otto volte i costi di produzione, per un totale stimato di più di 80 milioni di dollari, e aveva sancito il passaggio di Greta Gerwig dall’ambiente del cinema indie americano, dove si era formata, a quello della grande industria hollywoodiana; cosa che ci riporta a Piccole donne, prodotto dalla Columbia Picture, parte della Sony Picture, una delle più grandi case di produzioni cinematografiche americane. 

“Lady Bird” di Greta Gerwig (Credits: Warner Bros.)

Piccole donne aveva un budget di 40 milioni di dollari, 30 in più di Lady Bird, e ne incassò 218 milioni, con un incremento del 173% rispetto al film precedente. Il film fu fondamentale nella consolidamento della posizione di Gerwig come cineasta nel panorama americano perché, nonostante si trattasse, come dissero in molti quando stava per uscire, dell’ennesimo riadattamento cinematografico del libro, riuscì a imporsi sul mercato con successo. Donne di tutte le età corsero in sala (vuoi perché usciva a Natale, vuoi perché fondamentalmente davvero poche di loro non avevano letto e amato il libro) e il film ricevette 6 candidature agli Oscar (miglior film, migliore attrice protagonista, migliore attrice non protagonista, miglior sceneggiatura non originale, miglior costumi e miglior colonna sonora), vincendo però solo per migliori costumi. 

“Lady Bird” di Greta Gerwig (Credits: Warner Bros.)

Se Lady Bird era nato per dialogare con un pubblico molto più preciso (e, diciamolo, parlava a quel pubblico così schiettamente che ci mancava poco prima che Saoirse Ronan guardasse in camera stile Fleabag), questo film aveva il potenziale per raggiungere un audience molto più ampio ed ebbe successo nel farlo. Innanzitutto credo abbia contato molto l’elemento nostalgico per la spinta iniziale al botteghino, nella scelta del periodo di uscita nelle sale. Il film è uscito il 25 dicembre 2019 negli Stati Uniti, puntando probabilmente sul fatto che ci fosse una parte effettivamente ambientata a Natale (prontamente usata per una serie di trailer ad hoc, che puntavano a convincere che quello sarebbe stato il film perfetto per le vacanze). In più, anche la scelta del cast faceva gola e ci riusciva in modo trasversale: potevi vedere il film al cinema con tua zia super fan di Meryl Streep, la tua migliore amica che voleva nascere Emma Watson, tua sorella innamorata di Timothée Chalamet, tua mamma pazza per Laura Dern e infine, giusto per non farsi mancare nulla, tu potevi anche fare finta di niente, ma saresti andata solo per Louis Garrel (poco da fare… ci aveva azzeccato su tutta la linea). Queste erano solo le prove generali per la grande operazione-Barbie, ma furono fondamentali come banco di prova sia per Gerwig come regista (che tra l’altro diresse il film portando a termine una gravidanza) sia per le case di produzione come investimento.

“Lady Bird” di Greta Gerwig (Credits: Warner Bros.)

A prescindere da queste strategie, la verità è che il libro è di per sé scritto in partenza per un pubblico molto vasto, dalla prima infanzia fino all’ultima età. La storia parla di quattro sorelle molto diverse caratterialmente e ogni donna si può riconoscere in una di loro, così come può vedere delle somiglianze tra la propria madre e quella della storia (elemento già presente in Lady Bird che, non a caso, inizialmente doveva chiamarsi Mothers and Daughters). Ricordo che quando uscì alcune mie amiche si confrontarono su chi-assomigliasse-a-chi, anche per vedere se le loro idee fossero cambiate da quando avevano letto il libro da piccole. Per come è la storia, per il modo in cui racconta le vite delle protagoniste, nonostante siano ambientate nell’Ottocento, in ogni donna c’è qualcosa di Jo, qualcosa di Meg, qualcosa di Amy e qualcosa di Beth e Greta Gerwig aveva fatto un film per ricordarcelo. La mia scelta preferita, a livello di riadattamento, consiste nel fatto che la protagonista della pellicola sia interpretata da Saoirse Ronan, dettaglio che crea un fil rouge unico con Lady Bird, dove era ancora lei la protagonista. Ronan è per Gerwig quello che Jesse Eisenberg o Owen Wilson sono stati per Woody Allen, un alter ego attoriale nel momento in cui un regista-attore vuole concentrarsi solo su una parte del binomio. 

Greta Gerwig
“Lady Bird” di Greta Gerwig (Credits: Warner Bros.)

Un nodo importante del cinema di Greta Gerwig è il riconoscimento. Anche quando faceva i suoi primissimi film indie low-budget, come Hannah takes the stairs (2007) di Joe Swamberg scriveva i suoi personaggi con in testa questa idea. La critica scriveva già allora che i suoi film raccontavano una generazione e lei stessa vi recitava e dava corpo a quelle sensazioni. È un dato di fatto che Gerwig si sia distinta come una delle migliori attrici della sua generazione, con performance come quella di 20th Century women (2016) di Mike Mills. Il connubio tra la sua carriera di attrice e quella di sceneggiatrice, è stata la chiave con cui è riuscita ad aprire le porte che l’hanno portata fino a Barbie. Greta con i suoi personaggi è riuscita a mettere in scena delle sfaccettature che l’hanno resa unica, sia come attrice che come sceneggiatrice, e l’unione di questi due aspetti è stata fondamentale: il fatto che avesse un’agency come artista e non fosse solo un’interprete l’ha messa in una posizione dominante all’interno dell’industria. 

Greta Gerwig
“Lady Bird” di Greta Gerwig (Credits: Warner Bros.)

Questo è il motivo per cui Frances Ha (2012) di Noah Baumbach sarà studiato in futuro come pietra miliare del cinema indie americano e punto di svolta nella carriera di Gerwig (e Baumbach). Greta Gerwig è già nel canone con quel film. L’influenza che il suo cinema ha avuto e avrà su una generazione intera di cineasti è già sul tavolo. La vulnerabilità del suo personaggio, le scelte e le situazioni di fronte alle quali ci viene mostrato, così come le scelte di regia, hanno dato alla luce un piccolo capolavoro. Frances Ha è il punto più alto (per lo meno fino a questo momento) della collaborazione artistica Gerwig-Baumbach, iniziata con Greenberg (2010, Baumbach) e proseguita con Mistress America (2015, Baumbach) e White Noise (2022, Baumbach), per finire con Barbie (2023, Gerwig) di cui lui è co-sceneggiatore. Entrambi provenienti dall’ambiente del cinema indie americano, i due si sono conosciuti come attrice e regista, per poi iniziare a scrivere sceneggiature insieme e raggiungere popolarità più o meno nello stesso momento. Baumbach godeva di una certa fama anche prima di collaborare con Gerwig, tanto è vero che aveva già lavorato con attrici del calibro di Nicole Kidman, ma arrivò al successo internazionale nello stesso momento; lo dimostra il fatto che i due si presentarono alla cerimonia degli Oscar 2020 con 6 nomination a testa per progetti separati. 

“Frances Ha” di Noah Baumbach (Credits: IMDb)

La spinta che la collaborazione con Baumbach ha dato alla carriera di Gerwig è innegabile, ma vale anche il contrario. Detto questo, Greta Gerwig è analizzabile individualmente. Il suo lavoro ha mantenuto nel tempo delle costanti sia nelle tematiche che nell’approccio alle stesse. L’idea di dare spazio a una rappresentazione diversa della realtà, di dare corpo a delle esperienze che non trovavano ancora rappresentazione nel cinema, indie o mainstream (ad eccezione del lavoro di Sofia Coppola), è ciò che si è mantenuto costante da Hannah takes the stairs a Barbie. Gerwig ha lavorato per sé, ma ha lavorato per tutte, creando uno spazio per delle voci diverse, mettendo in discussione un canone tutto maschile, nel cinema come nella letteratura (per tornare all’intervista e al momento in cui parla di Virginia Woolf). Non si tratta solo di personaggi, ma anche di figure lavorative nel settore. Lo spazio che è effettivamente riuscita a creare è innegabile: Barbie. Barbie non è “solo” il film più proficuo del 2023, con più di un miliardo e quattrocentomila dollari incassati, ma un vero e proprio fenomeno della cultura pop.

Greta Gerwig
“Frances Ha” di Noah Baumbach (Credits: IMDb)

Greta Gerwig ha messo piede nel cinema con qualche giovane sognatore, facendo film di un’oretta tutti improvvisazione, e venti anni dopo la troviamo in trionfo con il film di maggiore successo su tutta la faccia della terra. Come ci è riuscita? Rimanendo costante all’idea di creare uno spazio per il riconoscimento, per sé e per il suo pubblico, un luogo dove una donna ovunque nel mondo e di qualunque età potesse dire che aveva capito cosa Greta Gerwig stava cercando di dirle. Quale oggetto più iconico per questa impresa, se non la bambola con cui tutte le donne del mondo si sono dovute confrontare crescendo? Io ci trovo solo della genialità in questo. Per non parlare del fatto che dopo un fenomeno del genere sarà molto più facile per una regista donna trovare dello spazio nell’industria, perché i produttori vorranno sfruttare l’onda del successo di Barbie e investiranno molto di più in storie che esplorino il lato oscuro della luna. 

Greta Gerwig
“Frances Ha” di Noah Baumbach (Credits: IMDb)

Greta Gerwig è Virginia Woolf: she’s a lady but she’s really great.

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