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di giulia

Numerosi sono i nomi importanti che tornano a presentare i propri film in concorso in questa 76esima edizione del Festival del Cinema di Cannes: Haynes, Wenders, Bellocchio, Moretti, Kore’eda, Rohrwacher, Anderson. Asteroid City è il titolo dell’ultima opera con cui Wes Anderson torna a Cannes qualche anno dopo The French Dispatch e non nego che le aspettative, in quanto sua fan, erano alte. Aspettative che non sono state deluse, ma a quanto pare non tutti si sono trovati d’accordo con la sottoscritta riguardo questo aspetto. “Troppo Wes Anderson” è la critica principale che, declinata in diversi modi, è stata sollevata riguardo al film: la tecnicità portata all’estremo nei suoi colori pastello viene vista da alcuni critici come un modo per nascondere quelle che vengono definite carenze di trama, come se improvvisamente ci fossimo scordati che il gioco di Anderson sta tutto lì. E se il gioco funziona e fa parte di te, perché mai cambiarlo?

Scarlett Johansson in “Asteroid City” di Wes Anderson (Credits: Focus Feature).

Il film inizia con un Bryan Cranston nel panni di un conduttore televisivo pronto a presentarci un “racconto fantasioso” diviso in atti, introducendoci così ad un secondo livello narrativo che riguarda il fotografo Augie Steenbeck (Jason Schwartzman) e i suoi quattro figli. L’insolita famiglia arriva nella città desertica di Asteroid City, dove vivono in tutto 87 persone. Si trovano in città perché il figlio Woodrow Steenbeck (Jake Ryan) — che in più di un aspetto ricorda molto Rushmore — possa presentare la sua ultima invenzione al festival “Junior Stargazer”. La convention di astronomia vede la partecipazione di grandi scienziati (Tilda Swinton), militari scorbutici (Jeffrey Wright) e anche star del cinema (Scarlett Johansson). Ognuno di loro con i propri problemi, ma nessuno pronto ad aspettarsi l’evento che coinvolgerà Asteroid City, cambiando il mondo, ma sopratutto le loro vite, data la settimana di quarantena che porterà l’eclettico gruppo a un’inevitabile convivenza.

Difficile in poche righe spiegare la trama di questo prodotto sul metacinema, realizzato (sì, ancora una volta come suo solito) da un cast di infiniti artisti. Un film basato sul raccontare un programma televisivo che parla di un’opera teatrale “sull’infinito e non so cos’altro”, come viene descritta nell’introduzione dopo pochi minuti dall’inizio della visione. Forse, per capire un po’ meglio cosa sta dietro ad Asteoird City — e sopratutto alla mente di Anderson — è meglio riportare le idee del regista stesso e del suo cast, discusse durante la conferenza stampa tenuta a Cannes qualche giorno fa.

“Asteroid City” di Wes Anderson (Credits: Focus Feature).

Dopo l’entrata del cast nella sala stampa il moderatore Didier Allouch, non perde tempo con lunghe introduzioni e passa subito alle domande, tenendosene alcune per se prima di passare la parola alle persone in stanza. Allouch parte chiedendo: «per noi amanti del cinema, e lo so bene, è un piacere tornare nel mondo di un regista che ha una visione così particolare, uno stile così definito. È una sensazione familiare ritrovare tutto questo ancora una volta. Quello che mi chiedo è come sia per tutti voi — quelli che sono tornati, o i nuovi arrivati in questo mondo — immergersi nella mente di Monsieur Anderson?»

La prima a rispondere è Scarlet Johansson, dicendo: «È stato intenso, è divertente perché il mondo di Wes esce dalla sua mente diventando reale, è lì e tu ci sei dentro, è creato perché tu possa farne parte. È la mia prima esperienza con Wes, come attore e non come cane [si riferisce qui a Isle of Dogs] e ho scoperto che lavorare con lui in un certo senso è quasi come fare teatro, in qualche modo Wes ha evitato alcune parti di quel processo monotono che si può trovare sul set di un film, rendendo invece tutto molto vibrante ed eccitante.» Maya Hawke prende poi la parola per aggiungere: «Sono d’accordo con Scarlet, l’ensemble che Wes crea sul set in combinazione con il livello di scrittura, la narrazione e la bellezza dello spazio che si trova al di fuori rende il tutto così piacevole, non c’è alcuna pressione su di te perché ogni parte del mondo che ti circonda funziona in modo così fluido, il processo e il prodotto sono allineati in modo così bello. Ci si sente meravigliosamente a proprio agio, anche se la pressione può sembrare tanta, considerando quanto è alta la posta in gioco.»

Allouch continua: «l’aspetto visivo del film rende il lavoro più impegnativo o difficile?»

Bryan Cranston non esita a rispondere: «è assolutamente molto impegnativo, dobbiamo concentrarci su quello che facciamo in modo diverso dal solito. Per me è come se Wes fosse il direttore di un’orchestra e tutti noi suonassimo un particolare strumento e ci concentrassimo sul nostro personale strumento, senza sapere esattamente come andrà a finire. Lui fa tutti i dovuti aggiustamenti man mano. C’è una scena nel film in cui Augie (Jason Schwartzman) dice che non capisce la commedia, ebbene, non è necessario, basta continuare a raccontare la storia. Il significato del film per me è: attraversiamo la vita e non sappiamo esattamente cosa succederà, quanto sarà lunga la nostra vita, chi ci sarà dentro, come si svolgerà, ma dobbiamo solo continuare a raccontare la storia», per poi fare finta di andarsene durante l’applauso del pubblico salutando e dicendo in modo scherzoso di aver già detto troppe cose belle. 

Jeffrey Wright in “Asteroid City” di Wes Anderson (Credits: Focus Feature).

La conferenza continua con una domanda del moderatore diretta a Rupert Friend, chiedendogli come avesse reagito quando Wes gli ha proposto il ruolo di “cowboy danzante”. «Beh, per me ci sono solo un paio di persone che hanno il potere di farti credere che puoi fare cose che non sapevi di poter fare» dice Friend, «e nel mio caso una di queste è Aimee Mullins, con cui sono sposato, e l’altra è Wes. Quando lui ti chiama e ti chiede “cosa ne pensi di cantare le canzoni dal vivo” e tu rispondi “Wes non sono un musicista”, lui semplicemente te lo chiede di nuovo. E tu rispondi di sì. Lavorare con Wes è un viaggio, ogni volta che ti chiede qualcosa finisci per acquisire una nuova serie di abilità, è un sogno che diventa realtà».

«Jason, a proposito di cowboy, questo non è il tuo primo rodeo con Wes. Com’è andata questa volta?» Allouch chiede a Schwartzman riprendendo la conversazione. Domanda alla quale Schwartzman risponde sorridendo: «Ogni volta sono grato e sempre sorpreso. Avevo 17 anni quando ci siamo incontrati, lui è la prima persona non facente parte della mia famiglia con più di 20 anni che mi ha fatto una domanda e si è realmente interessata a quello che avevo da rispondere, era curioso di sapere in cosa ero interessato, è stato insolito per me. Credo che questa sensazione sia il motivo per cui siamo tutti qui, perché lui vuole sapere di tutti noi, è curioso e vede nelle persone con cui lavora cose che anche noi stessi a volte noi non vediamo. Siamo cresciuti ed evoluti insieme, tuttavia sono sempre motivato a prendere le cose che ho imparato con lui per spingerle in nuovi luoghi.» Qui Anderson lo interrompe, dicendo: «Sai, anch’io ho avuto questa esperienza. Jason era così giovane quando abbiamo lavorato insieme per la prima volta e ha interpretato il ruolo principale in uno dei miei primi film [si riferisce qui a Rushmore], avevi così tante cose che ti collegavano al mio personaggio. Abbiamo passato tutto questo tempo a relazionarci e a fare affidamento l’uno sull’altro. In questo film, molti anni dopo, lavoriamo ancora più a stretto contatto di una volta, ma a un certo punto delle riprese mi sono reso conto che non avevo idea della preparazione che avevi fatto, ti ho chiesto di fare una scena che non era prevista e mi sono reso conto che avevi un rituale assolutamente fondamentale per il personaggio. L’ho conosciuto quando era un adolescente e ora è qualcuno con una padronanza del suo mestiere e del suo mezzo in un modo di cui, in un certo senso, non ero nemmeno consapevole.»

Conferenza stampa di “Asteroid City” di Wes Anderson.

A questo punto, dopo che Allouch ha scherzato un po’ con Anderson chiedendo se credesse o meno alla vita extraterrestre, la parola viene passata ai giornalisti in sala. Qualcuno rompe il ghiaccio: «Mr. Anderson, ha già detto in precedenza che Asteroid City è stato influenzato dal periodo della pandemia di Covid, assistiamo a uno stato di quarantena nel film e di conseguenza a questo i personaggi si trovano costretti a gestire i propri problemi e le proprie paure in maniera diversa dal solito. Oltre a questo però il suo film si concentra anche sulle paure dell’artista stesso, nelle scene e dietro le quinte. Si tratta quindi questa di un’auto-riflessione su ciò che è accaduto durante la pandemia?» Anderson risponde: «durante la parte veramente intensa del periodo della pandemia stavamo scrivendo la sceneggiatura, sinceramente non credo che ci sarebbe stata una quarantena nella storia se non l’avessimo vissuta realmente nelle nostre vite. Ma non è stato tutto intenzionale, la scrittura è per certi versi la parte più improvvisata dell’intero processo, perché si basa e parte da un momento in cui non c’è assolutamente nulla, se non c’è una scintilla, anche se si può rielaborare e rielaborare, non potrà mai funzionare. Per questo accade che quello che c’è nella tua vita filtra nel processo, in un modo che non possiamo controllare. La realizzazione del film, tuttavia, si è svolta durante i protocolli di restrizione dovuti al Covid e questo in realtà ci ha aiutato in parte. Non dico assolutamente che è stato un bene, ma siamo così riusciti a formare una troupe unita e siamo rimasti insieme sempre, abbiamo lavorato in un grande set ma ci siamo sentiti vicini, tutto era lì solo per noi.»

Sono tante le domande che seguono a toccare il tema del peculiare stile di Anderson: «come regista utilizzate un particolare vernacolo audiovisivo, così particolare e così identificabile. In un contesto come quello odierno in cui le produzioni che vengono realizzate sfruttando l’utilizzo del CGI in modo spropositato, come ritiene che uno stile “Wes Anderson” sia necessario quando si guarda alla prossima generazione e anche alla possibilità che possa nascere un nuovo Anderson quando stilisticamente l’industria è piuttosto stagnante.» Anderson fa un sospiro, e risponde: «domanda pesante, la mie decisioni tecniche e stilistiche in un certo senso formano l’atmosfera che voglio creare per il cast, creando il modo in cui produrremo il film. In un film come Asteroid City ci sono molte cose che avremmo potuto fare in post-produzione e che invece abbiamo fatto direttamente sul set in Spagna. Quando qualcuno dice che il mio film sembra un set teatrale, penso che sia una cosa positiva. Sono particolarmente attratto dalle vecchie tecniche, giriamo in pellicola e il modo in cui lavoriamo è molto più simile a quello di un film realizzato nel 1930 che a quello della maggior parte dei film realizzati adesso. Non so in che modo tutto ciò informi qualcuno di giovane e prossimo venturo, credo che oggi le persone abbiano la possibilità di creare con infiniti mezzi, ci sono così tante possibilità nuove adesso che non esistevano quando ho iniziato a fare film, ma in fondo mi sento di dire che tutto dipende sempre da quale sia la storia che stai raccontando e da cosa devi realizzare per ottenerla.»

Conferenza stampa di “Asteroid City” di Wes Anderson.

Avvicinandosi alla fine di questa conferenza le domande da fare sarebbero ancora tantissime, ma purtroppo il tempo stringe e il microfono viene passato a un ultimo fortunato giornalista, che chiede: «c’erano così tante metafore fantastiche nella narrazione del film, che ognuno è pronto a cogliere e prendere nel proprio cuore. La mia domanda relativa a questo è: come mai la decisione di usare il teatro, pensate che il teatro possa aiutarci a ricostruire il nostro mondo distrutto?» «Sì, direi di sì» risponde Anderson senza esitare, «penso che raccontare storie sia così automatico per noi e mettere in scena uno spettacolo teatrale — anche se non metto in scena spettacoli su un vero palcoscenico — è qualcosa che mi è sempre sembrato eccitante, soprattutto l’idea di un pubblico là fuori a vedere questa cosa che hai creato in diretta. In realtà non ho mai fatto uno spettacolo teatrale perché ho paura, devi prenotare il teatro e deve aprire in un certo giorno, che ti piaccia o no, e questo mi preoccupa. Mi piace poter tornare in sala di montaggio e giocarci un po’.»

Bryan Cranston decide a questo punto di dire l’ultima parola: «Asteroid City è un film su un programma televisivo che fa una storia sul teatro, e credo che sia la lettera d’amore di Wes all’arte performativa. Ha avvolto le sue braccia intorno ai tre principali mezzi di comunicazione in cui siamo coinvolti. Trovo insolito come certi registi, in particolare quelli che non hanno recitato molto, se non addirittura mai, non apprezzino e addirittura si stupiscano del processo di recitazione, e credoinvece che Wes lo faccia, è curioso del processo degli attori e degli interpreti e di tutto il resto.» Anderson lo interrompe, terminando con con: «quello che ho capito molto presto nella mia carriera, quando sono andato su un set, è che gli altri attori sono molto diversi da me, ma sono collegati tra loro in un modo che per me è sempre stato un po’ misterioso. Tu sarai il film, tutti ti guarderanno mentre fai anche la più piccola cosa, e in qualche modo credo che questo fatto colleghi tutti gli attori, e di conseguenza credo che questa sia un po’ la magia che gira intorno alla creazione di un film.»

Asteroid City di Wes Anderson è un film che inizia fuorviando lo spettatore, facendoti credere che si tratti di un insieme sparso di piccole scene fini a se stesse o quasi, ma più la storia si sviluppa, più viene fuori che forse c’è un legame superiore che lega ognuno di questi personaggi apparentemente distinti. Tutto ritorna alla nozione che la pace che possiamo trovare in questo mondo dipende dalla capacità di sfruttare le varie cose che non potremo mai decifrare di esso. Potrai anche essere una persona smarrita, non in grado di capire i sentimenti provati ogni attimo, non capace di comprendere cosa stia succedendo in questo mondo confuso, ma non temere, Wes Anderson ti dirà sempre che non sei sola.

Giulia

Nouvelle Vague, arti visive e ramen istantaneo. Non mi piace parlare di me, ma mi piace parlare di film.

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