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Recensione di ‘Nope’, opera terza di Jordan Peele, uscito in Italia ad agosto 2022, in cui il regista ibrida commedia, western, horror e fantascienza. Ve lo raccontiamo (attenzione: con spoiler), tentando di enuclearne le aree tematiche più distintive.

di giuseppe

 ★★★½

“What if I told you that today you’ll leave here different? I’m talking to you. Right here, you are going to witness an absolute spectacle. So what happens next? You ready? Are you ready?”

Nope, terza fatica di Jordan Peele – il suo film più costoso e meno semplice da inserire sotto la categoria horror/thriller che qualificava abbastanza precisamente i suoi precedenti – inizia con le immagini di uno studio televisivo deserto, un corpo abbandonato sul pavimento, una scimmia vestita in modo curioso, ricoperta di sangue, che vaga nel disordine generale in cui è stato lasciato il set. Improvvisamente, l’animale, che subito intuiamo essere colpevole della carneficina, si rivolge minaccioso verso lo spettatore: lo sguardo di un personaggio che resta assente sullo schermo lo spia, scopriremo, da sotto un tavolo. 

Dopo il prologo (un segmento che si colloca circa sei mesi prima degli eventi del resto della narrazione), la scena dei titoli di testa, tramite una complessa ricostruzione digitale, riproduce la famosa sequenza fotografica – scattata da Eadweard Muybridge fra il 1877 e il 1878 – che, grazie all’accostamento dei singoli frame, riusciva a creare l’illusione del movimento, risultando così come uno dei più prossimi antesignani del cinematografo. Il fantino e il cavallo, protagonisti delle fotografie, emergono sullo schermo come emanati da un raggio di luce, proveniente da un misterioso corridoio, che, li proietta su uno schermo bianco e li eleva sopra le ombre della notte. Alla serie di singoli scatti giustapposti si è sostituita una rappresentazione continua della corsa, fluida e scorrevole come quella catturata su un qualunque dispositivo di riproduzione audiovisiva moderno. Il punto di vista è ancora una volta nascosto. Lo spettatore osserva quest’immagine, come dall’alto verso il basso, senza sapere del tutto che il suo sguardo coincide con quello di qualcun’altro. Questo – che sarà poi il “grande altro” del film – è però assente, invisibile. L’unica certezza è che lo sguardo ha trasformato l’illusione, modificando la riproduzione del movimento (la rappresentazione del reale, si potrebbe dire), ma non eliminandola, anzi: intensificandola e rendendola più forte. È la fiction stessa ad uscirne rafforzata.

Recensione Nope Jordan Peele
‘Sally Gardner at a Gallop’ di Edweard Muybridge (Credits: IMDb)

l’ossessione dello sguardo

È su questo continuo gioco di sguardi, fautore di una doppia riproduzione, o meglio di una riproduzione doppia, che il film di Peele trova la sua più autentica dimensione. Ancora una volta il cinema, e in particolare il genere horror, assume le sembianze di un occhio meccanico dominato dalla tipica ossessione per il visibile e da una mai tramontata pulsione scopica. Le due iniziali soggettive senza soggetto, evocate in precedenza, anticipano forse il più centrale dei temi del lungometraggio del regista americano. Scolpire in un’immagine il mostruoso (da intendere come “prodigioso”, “straordinario”, da monstrum latino) per renderlo di nuovo ordinario, veramente visibile, finalmente passibile di uno sfruttamento economico. La storia racconta, infatti, le vicende dei fratelli Haywood, Emerald (Keke Palmer) e OJ (Daniel Kaluuya), discendenti del fantino protagonista dell’esperimento di Muybridge, moderni cowboy che portano avanti – senza più grande ritorno in termini di guadagno – il ranch californiano del padre, fornendo cavalli a grandi produzioni hollywoodiane e a parchi divertimenti locali.

Recensione Nope Jordan Peele
Daniel Kaluuya, Keke Palmer, Brandon Perea in ‘Nope’ di Jordan Peele (Credits: Universal)

Accortisi del verificarsi di una serie di eventi paranormali, si convincono del fatto che una presenza aliena sta stazionando nel cielo sopra la loro tenuta. Nonostante ne siano terrorizzati, decidono, con l’aiuto del tecnico informatico Angel (Brandon Perea), di tentare di imprimere su video questa apparizione extraterrestre (al fenomenale grido di battaglia “Per Oprah!”, nota conduttrice di un seguitissimo talk-show a cui verrebbero certamente invitati se riuscissero a filmare l’entità aliena) per assicurarsi fama e denaro. L’oggetto volante non identificato, viene rivelato successivamente, non si manifesta nella classica figura del disco volante, per cui inizialmente era stato scambiato, ma (forse con un occhio a La cosa, come testimonia anche la presenza attoriale del “carpenteriano” Keith David) in quella di un predatore multiforme le cui sembianze incrociano le caratteristiche di molti animali terrestri, senza però coincidere del tutto né assomigliare a nessuna specie in particolare.

Daniel Kaluuya in ‘Nope’ di Jordan Peele (Credits: Universal)

Volendo osare un’iniziale interpretazione di stampo massimalista, si potrebbe dire – dato che la cavità orale del mostro, mangiatore di uomini e cavalli, quando si presenta nella sua forma circolare all’apparire è vicina a quella di un grande occhio indagatore – recuperando una definizione attribuita alle ripetute incarnazioni cinematografiche di Frankenstein, che Jean Jacket, il rapace alieno di Nope, è una rappresentazione ideale del Cinema stesso (o almeno ne rappresenta una fondamentale qualità). Se il mostro inventato da Mary Shelley costituisce un adeguato termine di paragone per inquadrare il medium come un’arte del collage, in cui l’unione di varie tecniche aggregate dà vita a un prodotto unico, il parallelo con lo sfuggente alieno di Nope si sostanzia nel suo polimorfismo legato in particolare a una componente voyeuristica. Sotto forma di nuvola osserva immobile dal cielo senza mostrarsi; sotto vesti più esplicite, fin dalla sua prima apocalittica apparizione, sembra porsi come corrispettivo dell’occhio filmico della macchina da presa. Così le ripetute soggettive dal punto di vista dell’alieno, peculiare elemento di ogni monster-movie (si ricordino le inquadrature de Lo squalo, in cui l’immagine veniva divisa fra sotto e sopra la superficie dell’acqua), contribuiscono alla funzione identificativa della forza della visione in questo predatore, che tutto scruta e tutto ingloba. 

il mito della visione

Il film – diviso in 5 parti titolate secondo i nomi degli animali su cui via via si concentra la narrazione – intreccia la storyline dei due fratelli con quella dell’ex attore bambino e ormai affermato imprenditore Ricky Park (Steven Yeun), proprietario di Jupiter’s Claim, un parco-giochi a tema “old far west” non troppo distante dal luogo delle apparizioni. Era proprio lui – verrà svelato poco dopo l’inizio – a spiare preoccupato da sotto un tavolo la furia violenta della scimmia, esplosa durante le riprese di Gordy’s Home!, una sitcom anni ’90 (Peele ne ha immaginato anche una possibile sigla che non è entrata nel montaggio finale), in cui interpretava il figlio minore della famiglia che nella finzione televisiva ospitava il simpatico scimpanzé Gordy. In una delle scene di più forte impatto, Ricky, che, come tutti gli altri personaggi ha un’ossessione maniacale per la creazione e la fruizione dello spettacolo – forse anche per esorcizzare il trauma passato dell’incontro ravvicinato con l’irrazionalità cieca della violenza animale – compreso ormai da mesi che la presenza nel cielo è quella di un gigantesco predatore affamato, cerca di sfruttarla per il nuovo spettacolo tematico, la Star Lasso Experience, organizzato con tanto di merchandise. L’esibizione prevede il sacrificio di uno dei cavalli precedentemente acquistato dagli Haywood, che verrebbe concesso in pasto all’alieno per lo sbalordimento degli spettatori paganti.

Terry Notary interpreta in motion-capture lo scimpanzé Gordy in ‘Nope’ di Jordan Peele (Credits: IMDb)

Come nel caso di Gordy, questo show imbastito a scopo commerciale finirà in tragedia, rivelando che i due episodi – il flashback della sitcom televisiva e il presente del tentato rodeo – sono uniti da un doppio filo, rimarcato dalla presenza di un enigmatico personaggio col volto velato che assiste in platea (è l’attrice che interpretava la sorella di Ricky in Gordy’s Home!, sfigurata a seguito dell’aggressione dello scimpanzè che interpretava Gordy). Posta al termine della sequenza, non può non essere citata quella che forse è la scena più sorprendente del film: la visione dell’apparato digestivo di Jean Jacket che ingloba lentamente il pubblico ancora vivo e urlante della Star Lasso Experience. La forza della visione, quella proposta dallo sguardo consapevole e oggettivo del regista, arriva fino a questo.

Questa forma-alieno dall’elaborato design curato da Peele e dalla sua crew, riporta suggestivamente anche a un immaginario quasi mitologico: la creatura si ciba, infatti, similmente alla descrizione omerica dei mostri marini Scilla e Cariddi, provocando dei tornado che risucchiano letteralmente le prede direttamente fra le sue fauci. È, quindi, infine posta come archetipo della bestialità e dell’istintività percepita nell’alterità animale: non la si deve guardare fissamente, non va sfidata, non si può domare. Forse è anche impossibile filmarla.

Una scena di ‘Nope’ (Credits: Universal)

L’emissione di campi magnetici che si scatena al suo passaggio disattiva, infatti, ogni dispositivo elettronico. È proprio su questo spunto di sceneggiatura, da cui nascono alcune delle migliori idee visive del film (le luci in lontananza che calano, la musica del giradischi che viene distorta prima di svanire, il distributore automatico di granite che si spegne lentamente, i pupazzi gonfiabili che crollano a terra; e in opposizione a queste troviamo: il buio della notte di Agua Dulce, il silenzio e i rumori della natura che si sostituiscono al suono, il vento – che segnala l’inizio del movimento di discesa del mostro – che attiva le girandole e le banderuole segnavento nell’arena di Jupiter’s Claim, l’arrivo alle spalle del pericolo imminente) degne di autori affermati come Spielberg e Shyamalan, che si impernia la dialettica digitale / pellicola che caratterizza, anche in senso meta-cinematografico, l’ultimo segmento. Peele e il suo direttore della fotografia, Hoyte Van Hoytema, hanno, infatti, girato in 70mm, con l’apporto di cineprese IMAX (non solo: qui trovate un’interessante intervista in cui il processo di lavorazione è spiegato nei dettagli da Van Hoytema che dà conto del mix di tecniche utilizzato per alcune scene). Proprio di queste si servirà Antlers Holst (Michael Wincott), il filmmaker narcisista ingaggiato dai due fratelli per riprendere la figura impossibile da riprendere del mostro, dopo svariati tentativi falliti con dispositivi digitali di ultima generazione. L’unico mezzo per fissare in un’immagine, riproducibile ed eterna, la molteplicità di forme visibili che contraddistingue la creatura è quindi un portato del cinema del passato, che viene continuamente rievocato e di cui si nutre tutto il cinema di Peele (insieme a buona parte dell’horror contemporaneo). 

i will make you a spectacle: limiti e confini del blockbuster

“What’s a bad miracle?”, chiede OJ a Emerald prima che il vero motivo degli innaturali avvenimenti capitati nei dintorni sia definito. Forse è proprio questa la nozione che Peele è interessato a indagare, recuperando il senso di meraviglia e lo stupore della scoperta della parte migliore del cinema sci-fi di Spielberg. Il miracolo cattivo a cui assisteranno i suoi personaggi, nel momento topico dello show-off (ovvero del disvelamento) della creatura, si carica infatti di un’aura messianica, a cui, per la verità, non manca una nota ironica che riporta agli esordi del regista nella commedia. La pioggia rossa vomitata dal ventre dell’alieno investe la tenuta degli Haywood, inondando il suolo di letterali fiumi di sangue. OJ nascosto nel furgone, inutilizzabile a causa del campo elettromagnetico, sonda le sue possibilità di fuga. Toglie il blocco della portiera, apre lentamente lo sportello e – nope – si accorge che uscire allo scoperto, in quella circostanza, è sinonimo di morte certa. Così, il film di Peele, fino al suo entusiasmante duello finale, capace di rivelare esplicitamente le venature western che intessono tutta la narrazione, riesce efficacemente a tenersi in equilibrio su questo doppio registro, pur indulgendo abbondantemente nella costruzione di segni da decifrare, rimandi interni e un gioco meta-testuale ambizioso e forse compiaciuto, che – più che criticare – sembra esaltare la società dello spettacolo e l’intraprendenza nello show-business (o quantomeno ne subisce il fascino). Ci si può legittimamente chiedere fin dove si estenda la riflessione meta-cinematografica sul cinema blockbuster di Peele, che mette in scena l’attanagliante morbo, soprattutto audiovisivo, dello spettacolo nella società moderna, offrendo allo stesso tempo un’esperienza spettacolare. L’impressione è, quindi, quella di un dualismo irrisolto, che vive nella dimensione ambivalente in cui la riflessione sul senso dello spettacolo lascia il posto a una riaffermazione della forza dello spettacolo stesso.

Un miracolo cattivo in ‘Nope’ di Jordan Peele (Credits: Universal)

Alla fine, l’immagine del mostro alieno, nella sua forma più pericolosa, con le grandi ali interne spiegate, viene iconicamente fotografata da un dispositivo analogico nel cielo sopra l’ormai deserto Jupiter’s Claim. Il film sembra, infine, suggerire che sconfiggere l’orrore, oggi, significa rappresentarlo, renderlo concreto, pur smaterializzandolo, su un supporto che ne consenta una raffigurazione ripetuta: normalizzarlo riducendolo a una goccia in un flusso infinito di altre immagini (ed è forse proprio questo il più autentico miracolo cattivo). Ci dice, insomma, qualcosa sulla voracità, simile a quella dello stesso animale-alieno, delle immagini del presente e ha almeno il merito di evidenziare con chiarezza la sete di consumo contemporanea per tutto ciò che definisce l’universo della realtà mediale. 

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