recensione a cura di giulia gelain
Le prime volte di Giulia Cosentino e Perla Sardella, attraverso il riutilizzo d’archivio dei filmati di famiglia, pone in dialogo il passato e il presente, ciò che è accaduto e ciò che possiamo immaginare, con uno sguardo femminista e politico.
Le prime volte, durante la giovinezza, ci segnano come un pennarello, si inscrivono sul corpo, travalicando il tempo e lo spazio in virtù del loro carattere di universalità. Si dice che l’amore si possa astrarre, che sia un’esperienza assoluta. Il film di Perla Sardella e Giulia Cosentino, selezionato prima in competizione al Visions du Réel, è stato poi presentato in anteprima italiana al 43° Bellaria Film Festival e racconta, attraverso un lavoro audiovisivo sul cinema d’archivio, dell’amore sfiorato, incompiuto, solamente accennato, tra Emilia e Caterina in un collegio negli anni Cinquanta. Le due donne guardano e si guardano, scavano nella possibilità di ciò che avrebbe potuto essere e nel rimorso di ciò che non è stato, viaggiano fino a noi instaurandosi nel nostro tempo con delle voci fuori campo.
Rimaneggiando i filmati di famiglia della Fondazione Museo Storico del Trentino, Sardella e Cosentino costruiscono un film in cui il corpo umano di fatto diventa l’archivio, dove il recupero della memoria è prettamente sensoriale, quasi tattile, uditivo. L’idea è che il personale sia, in qualche modo, sempre politico: la ridefinizione dello sguardo “al femminile” porta a galla esperienze e ricordi ancora oggi viventi, parlanti e più che mai rilevanti. Viene perciò messa in atto una riscrittura del punto di vista, a livello storico e famigliare, che vede sottrarre il primato maschile in favore della riappropriazione dello spazio narrativo da parte degli individui ai margini. Gran parte dei video d’archivio, d’altro canto, vede l’uomo come osservatore e la donna come soggetto delle riprese; una dinamica che si riproduce e riverbera nel cinema tout court e non solo. La necessità di adottare, anche in altri ambiti quali la Storia e la letteratura, uno sguardo critico, come esercizio di fondamentale importanza per riabilitare storie sepolte e ascoltare voci che per lungo tempo sono state mute, è sempre più urgente.

Interessante è anche l’intervento delle registe sulla pellicola: alle immagini sono sovrapposti il colore e le scritte, vengono utilizzati filmati di varia provenienza e diversi dispositivi narrativi, come quello della lettera. La formula epistolare, infatti, permette di esplorare nell’intimo l’introspezione delle donne, che trovano nella parola scritta il modo di esprimere i propri pensieri segreti. Ancora una volta ritorna il tema della configurazione politica di ciò che è personale, con lo scopo di immaginare un tipo di cinema lontano da quelle pratiche di rappresentazione tradizionalmente codificate (le quali vedono, appunto, lo spettatore – maschile – come destinatario prediletto dell’immagine in movimento). La manipolazione del materiale di repertorio e la sperimentazione tecnica, inoltre, lasciano spazio all’esistenza di un cinema d’archivio che ripensa il suo statuto ontologico di mera veridicità storicamente situata e che quindi si apre a racconti inediti e originali. A tal proposito, il finale, composto da girati delle registe, è un inno alla ribellione, un’esplosione di vita che sboccia in mezzo alla folla.