recensione a cura di lorenzo santini
Il Baracchino: la serie animata tutta italiana sul mondo della stand-up comedy
È uscita Il Baracchino. «L’hai vista Il Baracchino?», fermi tutti: che cos’è Il Baracchino? A questa mia domanda arriva tempestivamente risposta: Il Baracchino è una serie animata per adulti tutta italiana, dedicata al mondo della stand-up comedy. E già qui, le carte in regola per attirare la mia attenzione ci sono. Tralasciando il fatto che nel giro di pochi giorni comincio a sentirne parlare sempre di più, ovunque, da chiunque. Ora, devo confessarlo: io ho un problema con la serialità in generale. Fatico a essere costante, anche con serie da dieci episodi di un’ora l’uno. Ma scopro in fretta che Il Baracchino ne conta soltanto sei da poco più di 15 minuti ciascuno. E così convengo che l’impresa possa essere assolutamente fattibile e mi metto sotto a recuperamela.

Il Baracchino è disponibile su Prime Video ed è la prima serie animata originale italiana prodotta dalla piattaforma. A crearla ci hanno pensato Nicolò Cuccì e Salvo Di Paola, dello studio palermitano Megadrago, in collaborazione con Lucky Red. È, oggettivamente (penso si possa essere tutti quanti abbastanza d’accordo in fin dei conti), una bella opera. È un lavoro che fin dai primi minuti lascia trasparire una cura tecnica notevole, pur senza disporre di un budget stratosferico. Alcune scelte registiche lo lasciano intuire: ad esempio, le inquadrature, intelligentemente, non scendono mai al di sotto di una certa linea per ottimizzare la produzione.

L’intuizione più brillante? Sicuramente quella di sfruttare una molteplicità di tecniche di animazione differenti – dal 3D con Blender al 2D, sia digitale che tradizionale, dalla claymation alla puppet animation – mescolandole in uno stile eterogeneo dove le varie riescono a dialogare bene fra di loro. Un po’ come accade in The Amazing World of Gumball, per capirci. E, diciamolo, una roba del genere, in Italia, non so quanti la potessero ritenere scontata da realizzare. La serie si presenta come un mockumentary girato attorno a un ex tempio della comicità – un locale decaduto, gestito del disilluso unicorno Maurizio (doppiato da Lillo Petrolo), che riecheggia le stagioni più floride del nostro cabaret, e spazi mitici come il milanese Derby Club o il romano Beat 72 – e segue le vicende di Claudia (Pilar Fogliati) che cerca di rilanciarlo organizzando una serata Open Mic con una batteria di bizzarri aspiranti comici pronti a mettersi in gioco.

Fra questi: Luca (interpretato da Luca Ravenna), piccione tabagista dall’umorismo black, Marco Morte (Stefano Rapone), ovvero il Tristo Mietitore in persona, Leonardo, il genio vinciano in chiave umoristica, John Lumano (Daniele Tinti), forse il personaggio più assurdo, demenziale e indecifrabile della serie, Noemi la ciambella (Michela Giraud) e Tricerita (Yoko Yamada), triceratopo affetto da eco-ansia. Al fianco di Claudia, pronti a far risorgere Il Baracchino, ci sono anche: Donato la ciambella – o meglio, donut – doppiato da Frank Matano, Gerri il tuttofare (Salvo di Paola), Larry Tucano (Pietro Sermonti), ex comico sornione che sembra un’estremizzazione di quello Stanis di Boris allergico ai “personaggi con quella c aspirata e quel senso dell’umorismo da quattro soldi” – anche qua presenti.

Il cast vocale suscita un forte appeal, e va riconosciuto agli autori pure il merito di aver saputo coinvolgere – sempre con intelligenza – alcuni tra i più noti nomi della comicità nostrana contemporanea, in maniera efficace. Nel senso che tutti i vari personaggi sembrano essere stati pensati fin dall’inizio con grande attenzione, sia nel design che nella scrittura, e perfettamente modellati sulle personalità di chi presta loro la voce. Un esempio su tutti: Maurizio, che nel tempo libero dipinge miniature, proprio come Lillo nella vita reale. Il risultato finale funziona, contribuendo a mascherare – e talvolta colmare – alcune eventuali imperfezioni nel doppiaggio, che altrimenti sarebbero potute risultare più evidenti.

Nel minutaggio complessivo, la trama – semplice per struttura – si sviluppa per lo più attraverso le battute, vero e proprio motore della serie, insieme al ritmo comico serrato e all’abbondante citazionismo cine-televisivo. Tuttavia, sotto traccia, si toccano anche dei temi più profondi, che non voglio svelare per non rischiare di rovinare la visione a chi ancora può non averla vista, lasciando intravedere possibili sviluppi futuri. L’impressione è che questo universo narrativo fin qui tratteggiato possa notevolmente espandersi. E se così fosse, sarebbe interessante vedere approfondire i background dei vari personaggi, magari con flashback a colori – come quelli che già appaiono, con parsimonia, in questo primo ciclo di episodi ambientati in un mondo completamente monocromatico.

Certo, non siamo di fronte a un prodotto privo di difetti, né a un’opera probabilmente destinata a scolpirsi nella storia dell’animazione. Ma Cuccì e Di Paola sono riusciti a sviluppare e portare a termine un progetto originale, fresco e coraggioso, dando un piccolo segnale importante: anche in Italia si può ancora fare bella animazione, creativa, capace di esplorare le sue infinite possibilità e di poter essere pure “una cosa da grandi”. Un po’ come hanno fatto, a modo loro, le due serie di Zerocalcare. Se non l’avete ancora vista, guardatela. E se vi ritrovate abbastanza con le mie parole, consigliatela. Perché il passaparola, in fondo, ha sempre una sua importanza.