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intervista a cura di virginia maciel da rocha

Durante la scorsa edizione del Laterale Film Festival, ho avuto modo di scoprire un regista che non conoscevo. Craig Schehing, artista con base a New York, è regista a fotografo; ha all’attivo cortometraggi e progetti fotografici. Il suo lavoro «sunspots, burnt into my heart» è arrivato in Italia con la selezione 2024 del festival di cortometraggi sperimentali – ma il resto delle sue opere si possono trovare qui. Da questa visione ne è venuta fuori una corrispondenza (letteralmente) transatlantica, che ho provato a riportare nella maniera più fedele possibile qui sotto.

«sunspots, burnt into my heart» di Craig Schehing

La pellicola viene considerata da alcuni teorici e primi cineasti il mezzo per eccellenza per catturare l’essenza della natura. Se pensiamo alle teorie sulla fotogenia di Jean Epstein e alla loro messa in pratica, vediamo che il regista francese ha passato molto tempo a riprendere elementi vivi e fluidi come l’acqua («Finisterrae») e il fuoco («Etna»). Credi che queste teorie possano essere ancora applicabili, che la pellicola in qualche modo possa restituire in maniera più completa rispetto alle altre forme di espressione artistica gli elementi naturali?

Craig: Ho dovuto fare una piccola ricerca su Jean Epstein e sulla fotogenia (photogénie), dato che non avevo troppa familiarità né con l’autore, né con il concetto. Apprezzo questa introduzione, che mi ha fatto incuriosire per le idee che ho raccolto attraverso una panoramica a volo d’uccello degli articoli che ho sfogliato. Una cosa che mi ha colpito subito è la critica alle idee di Epstein, ritenute e definite da alcuni studiosi «teoricamente incoerenti», incoerenti dal punto di vista della teoria stretta, considerate spesso più vicine al misticismo che alla filosofia. Questo, in particolare, è un ambito di pensiero e di sentimento che trovo più accogliente e naturale, dove la pluralità di concetti è più diffusa di un senso unico. Considera queste parole una sorta di prefazione a quella che sarà una risposta sconclusionata e potenzialmente coerente – anche se pensata con ogni sforzo per renderla onesta e breve. 

«de julho» di Craig Schehing

«Catturare l’essenza della natura attraverso il cinema… non so se sia possibile, e anche se lo fosse, non so se sia qualcosa di auspicabile o meno. Il tentativo di farlo potrebbe essere addirittura qualcosa di perverso; a volte mi ritrovo a pensare che l’essenza della natura si manifesti come un qualcosa da cui farsi avvolgere, che è percepibile solo attraverso una sorta di abbandono, uno stato di profonda connessione e attenzione, difficile da immaginare con la presenza di una macchina fotografica o di un linguaggio specifico. Poi, però, leggendo le riflessioni di Epstein sul close up, mi ritrovo nella mia memoria a guardare attraverso l’obiettivo della macchina fotografica, spesso così vicino a una foglia, a un petalo o a un filo d’acqua che tocca, sono questi i momenti che mi affascinano di più. Mi ritrovo a contatto con gli elementi e la mia attenzione è molto focalizzata; sono in soggezione non solo per il corpo e la fisicità del mondo davanti a me, ma anche (e soprattutto in questi momenti) per il modo in cui il pensiero-sentimento-azione della percezione/registrazione filmica tradurrà e conterrà tracce e impressioni fenomenologiche ed emotive in gioco. Spero e credo che ci sia una certa alchimia in tutto questo. Ho avvertito che avrei divagato!»

«instructions how to build a swing» di Craig Schehing

«In passato ho preso in considerazione l’atto creativo come un’interferenza di segnale. Forse la musica è stata la scintilla che ha acceso e fatto scaturire questo pensiero in me, ma è un discorso che vale anche per il cinema. Ci sono frequenze di ogni tipo che rimbalzano in questo mondo e che non capisco; tuttavia, approfondirle e arrivare a comprenderle non è per me un prerequisito. Non lo è nemmeno per agire sul desiderio di interferire con esse (ma anche sulla curiosità e sul piacere di farlo). Mentre le mie mani si muovono intorno alla macchina fotografica, immagino e incoraggio le traduzioni di forma e di senso, volute e non volute, che stanno prendendo forma davanti ai miei occhi.»

Craig Schehing
«under the flower moon» di Craig Schehing

«In sostanza, in certi modi, alcune volte, il mezzo cinematografico mi avvicina alla natura, mi mette in contatto, mi permette di scoprire cose che i miei sensi “nudi” non possono carpire. Questo avviene sia attraverso la vicinanza o altre fenomenologie della percezione che entrano in gioco, sia grazie alla plasticità dello spazio e del tempo insita nel mezzo. Per tornare a Epstein e alla tua domanda, non voglio fare paragoni tra diverse forme di espressione, ma di movimento! Sì, credo che l’illusione del movimento nei film abbia una profonda e potente capacità di rianimare la natura, può essere voluttuosa, avvolgente e rapace. Sono grato di aver sperimentato così tante trasposizioni cinematografiche del mondo naturale attraverso il lavoro di altri artisti, e trovo piacere nell’atto di crearne e condividerne di mie. Forse mi sto contraddicendo, ma mentre cercavo di articolare i pensieri che le tue domande hanno suscitato, ho pensato per tutto il tempo a un passaggio[1] di Cronopios e Famas di Julio Cortazar

Craig Schehing
«june 9th» di Craig Schehing

«Il termine che ho usato poco fa, “perverso” potrebbe essere una parola troppo forte: fotografare un fiore non è equivalente a raccogliere un fiore, fotografare qualsiasi cosa, dopo tutto, si configura più come un atto di affetto. Più di una volta mi sono sentito come un’ape che ronza su un campo di fiori selvatici, in qualche modo animandoli. La questione di sacrificare l’esperienza di un momento sull’”altare” dell’atto fotografico ha tenuto occupate, per molto tempo, molte menti brillanti; io, invece, non riesco a dare una sentenza definitiva a riguardo. Credo di aver rotto e lanciato incantesimi con la mia macchina fotografica. Ma, ancora una volta, forse voglio evitare di fare paragoni: entrambi gli stati hanno i loro meriti e valori.»

Craig Schehing
«april 8th» di Craig Schehing

Alcuni tuoi lavori, attraverso il titolo composto da una data, proiettano lo spettatore in una dimensione molto più intima e diaristica. Quale pensi che sia il rapporto che deve instaurarsi tra un film e lo spettatore, ammesso che esista un metodo “universale” per poter fruire del cinema?

Craig: La serie di film che portano il titolo della data di realizzazione è nata in circostanze diverse, ma comunque correlate tra loro. Portano questo titolo forse più per il mio rapporto con il tempo e con certe idee e influenze, che per l’intenzione di stabilire un rapporto specifico con lo spettatore.

«Qualche tempo fa, lo scorso inverno, ho assistito alla rappresentazione del Bread and Puppet Theater del loro spettacolo The Hope Principle in the Time of Genocide e sono rimasto, non so come dirlo in altro modo, profondamente commosso. C’era una frase di un monologo che mi è rimasta profondamente impressa, qualcosa del tipo “è diritto di ogni essere umano vivere in un mondo in cui sia possibile sperimentare le proprie euforie quotidiane, abituali e non abituali”. Quest’idea dell’euforia quotidiana, sia nel riconoscimento che nella cura delle euforie “abituali”, forse apparentemente banali, ma per loro natura comunemente disponibili e accessibili, si è radicata nei miei pensieri. Sono stato spinto a prestare maggiore attenzione a ciò che eleva il mio spirito e a concedere a queste elevazioni più spazio. Per farla breve, ho iniziato a fare consapevolmente più spazio per riconoscere e amplificare l’euforia nella mia vita quotidiana. Così, nei mesi successivi sono stati realizzati alcuni film che ho pensato come una serie di euforie quotidiane, tra cui lake news, april 18th, under the flower moon e june 9th. Ognuno di questi film è stato girato nell’arco di una sola giornata e sono per lo più montaggi in camera.»

Craig Schehing
«lake news» di Craig Schehing

«Non credo di aver dedicato molto tempo a capire quale rapporto si debba instaurare tra un film e lo spettatore, credo che sia sempre un rapporto intimo, soggettivo e personale. Quindi non posso dire di supporre l’esistenza un metodo “universale” di fruizione del cinema. Per quanto riguarda la relazione fisica tra film e spettatore, però, ho stilato un breve elenco di preferenze: 1) corpi fisici che si ritrovano in uno spazio fisico, insieme; 2) proiezioni private, ad esempio in uno studio, in una cucina o in una camera da letto, dove avvenga uno scambio intimo, dove ci sia uno spettacolo e un racconto dietro; 3) all’esterno, in un luogo ospitale ma in cui, al tempo stesso, il mondo circostante potrebbe interferire, in un luogo pubblico; 4) in uno spazio in cui il pubblico (cioè io!) possa fumare.»

Craig Schehing
«some brief notes on beauty and being» di Craig Schehing

«Per quanto riguarda il rapporto contestuale tra film e spettatore, credo che questo vari molto tra i registi (come è giusto che sia), e in genere, per quanto mi riguarda, tendo a optare per un approccio less is more, perché sono più interessato a come uno spettatore possa creare il proprio rapporto con i miei film che a prescriverne uno io. Da questo punto di vista, sono un forte sostenitore delle comunioni d’intento soggettive, “teoricamente incoerenti”, molteplici e, in fondo, inesprimibili – che possono verificarsi o meno.»

Craig Schehing
«may 10th» di Craig Schehing

Il ritorno a un formato analogico (che si tratti del cinema o della fotografia poco importa) è un fenomeno recente e sempre più diffuso in ambito artistico. Più che a un diffuso sentimento nostalgico, considerando che si tratta di un atteggiamento molto diffuso anche tra giovanissimi che non hanno mai avuto a che fare con pellicola, si potrebbe parlare di un certo rifiuto dell’iperrealismo che costantemente ci viene proposto, come se i formati in estrema alta definizione avessero, in qualche modo, stancato il pubblico. A cosa pensi sia dovuto questo ritorno e questa fascinazione per l’analogico, a discapito del digitale?

Craig: Non ne ho idea!


[1] FLOWER AND CRONOPIO – A Cronopio comes across one single flower in the middle of the fields. First, he goes to pull it up, but considers it to be a useless cruelty and instead kneels down beside it and begins to joyfully play with the flower, i.e. he caresses the petals, he gently blows on it to make it dance, he buzzes like a bumble bee, he inhales its aroma, and finally he lies down under the flower and falls asleep surrounded by a great peace. The flower thinks to itself – “He’s just like a flower”.

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