approfondimento a cura di virginia maciel da rocha
Indocili, rassegna cinematografica organizzata da Tafano Cinema, torna per il suo secondo appuntamento in collaborazione con Nouvelle Bug, residenza artistica di cinema digitale. L’appuntamento è il 25 febbraio, come sempre, al Cinema Beltrade.
Quando si parla di cinema d’animazione, spesso e volentieri la mente dello spettatore visualizza immagini ben precise. Dall’animazione tradizionale alla più recente computer grafica, solitamente il pensiero è automatico e involontario: come se questo tipo di cinema fosse, in qualche modo, già codificato e prestabilito. In realtà, l’animazione è talmente pervasiva nella vita di tutti i giorni, da rendere difficile anche una vera e propria categorizzazione, se non per macroaree e tecniche specifiche; si passa dall’interfaccia di un videogioco, a una GIF inviata su WhatsApp, fino ad arrivare a quello che solitamente associamo a questa etichetta. Il dibattito, negli ultimi anni, si è allargato – anche se siamo lontani dal trovare un’etichetta definitiva a questi ambiti in particolare – e la questione si è sempre più spostata sui confini labili tra ciò che definiamo «animazione» e quello che, invece, è «live action». Nell’ambito del cinema (ma anche nel mondo videoludico) si parla, infatti, di livelli di ibridazione tra animazione e ripresa dal vero, da scene in cui la commistione tra queste due tecniche è evidente, fino ad arrivare a situazioni ibride, in cui è difficile distinguere tra ciò che è reale e ciò che è artificiale.

Se in film iconici come Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988) o Space Jam (1996) le due componenti sono chiaramente distinguibili, costituendo un primo livello di ibridazione, la questione si fa più dettagliata in casi in cui l’animazione avviene senza un modello di base da cui partire, come i personaggi interamente computerizzati di Final Fantasy (2001). Il caso di Final Fantasy è interessante da sondare, sia perché deriva da un ambito in cui l’animazione si è sviluppata parallelamente al cinema, quello del videogioco, sia perché, di fatto, tutto ciò che si vede nel lungometraggio è completamente artificiale; abbandonato il mondo reale, si arriva a un secondo livello di commistione. Infine, quando è difficile, anzi, impossibile distinguere la realtà dalla computerizzazione, si entra in un livello ulteriore, quello delle maschere, della sovrapposizione e della motion capture di attori dal vero che, però, non figurano nel film finale. Il case-study, in questo caso, è Star Wars: Rogue One (2016), in cui ad attori dal vero sono stati applicati filtri per interpretare attori invecchiati o non più in vita al momento delle riprese. Che cosa è vero, che cosa è finto? Quando, in questo caso, finisce il live action ed entra in gioco l’animazione, dato che non si tratta né pienamente di un caso, né dell’altro?

Alcuni dei cortometraggi prodotti all’interno della residenza artistica Nouvelle Bug portano lo spettatore a interrogarsi su questioni che vanno oltre ciò che si verifica sotto ai nostri occhi. Recuperando layout grafici, progettazioni, punti di vista interni ai videogiochi stessi e riprese dello schermo, come la tradizione del desktop movie insegna, costruiscono una dimensione altra, familiare e, al tempo stesso incredibilmente distante dalla quotidianità in cui siamo immersi. Time Sensitive Characters (2024) di Coralie Hina Gourdon mette bene in mostra il rapporto che intercorre tra internet, animazione, e vita reale. Servendosi di riprese da dirette live in cui, progressivamente, le persone finiscono per addormentarsi e unendo, con un particolare sound editing, momenti ASMR, Gourdon riflette sui limiti che (non) ci autoimponiamo quando arriviamo a fare uso della tecnologia. Senza fare caso a quanto pervasivi alcuni strumenti sono diventati, all’interno delle nostre vite, finiamo per entrare dentro situazioni totalizzanti, come quelle dei videogiochi giocati in prima persona. Non c’è una nota di pessimismo o di polemica in tutto questo: semplicemente i referenti, alla fine, non è troppo lontano dalla realtà — basti pensare all’esperimento portato avanti da GTA Roleplay, dove l’utente / giocatore poteva interagire all’interno del mondo alternativo con ruoli ben definiti e parti assegnate.

In J’adore Venise – On disappearing Bodies (2024) di Stefano Dealessandri la realtà si fa ancora più inquietante e la commistione tra reale e animato sfocia in quella che viene definita l’uncanny valley. La «valle» teorizzata dall’ingegnere giapponese Masahiro Mori recupera il concetto di perturbante teorizzato da Freud per spiegare quel territorio intangibile che viene riproposto quando in una rappresentazione visiva lo spettatore coglie una somiglianza con il mondo reale, senza però, trovare appigli e punti di riferimento stabili. Applicata già a scenari d’animazione in cui la somiglianza di alcuni personaggi ricalcava estremamente il reale, creando una situazione di straniamento nello spettatore, anche nel cortometraggio di Dealessandri si osserva una situazione simile: con un punto di vista preso in prestito dal mondo videoludico, la famigerata first person perspective, lo spettatore si muove in una Venezia spettrale, ricostruita tramite Google Maps. Le vie, le strade, Piazza San Marco: è tutto riconoscibile ma al tempo stesso intangibile, sempre più lontano mano a mano che si attraversa il centro città. Il tema dell’ipersorveglianza, nell’era del digitale (o dell’iperdigitale?), rende i turisti che sovraffollano la città lagunare pedine di un gioco, costantemente monitorato e osservato da qualcuno in alto, che si serve della tecnologia per applicare uno stretto controllo sugli accessi in città.
