approfondimento a cura di pavel belli micati
Il 25 febbraio torna a Milano Indocili, la rassegna organizzata da Tafano e ospitata dal Cinema Beltrade. Durante questo secondo appuntamento saranno proiettati lavori realizzati all’interno della Nouvelle Bug: una residenza artistica, quest’anno alla sua quarta edizione, nata dall’hub creativo Il Varco e ospitata da Lago Film Fest, festival cinematografico indipendente con sede in Veneto che si tiene ogni estate dal 2005 presso la magica località di Revine Lago, in provincia di Treviso. Nouvelle Bug è sì, uno spazio creativo, ma ancor prima, come il richiamo suggerisce, è uno tra quei recenti movimenti – come pure il nuovo cinema d’archivio –, nati all’interno dell’uso, innovativo, e del riuso, creativo, di dispositivi non strettamente filmici all’interno di sperimentazioni audiovisive. Come la programmatica dello storico movimento francese, nato sul finire degli anni Cinquanta, risultava dal desiderio di scomporre l’immagine nella sua ricezione immediata e di drammatizzarne gli esiti, ossia renderne dei palinsesti dall’esperienzialità narrativa, allo stesso modo questa Nouvelle Bug, che raccoglie lo spostamento digitale dell’immagine contemporanea, riaggiorna quell’intenzione poetica all’era del videogioco, delle realtà virtuali e delle simulazioni digitali.

Per quanto avanguardistica l’intersezione possa apparire, la Nouvelle Bug attinge precisamente da quella vecchia eredità della letteratura fantascientifica, inaugurata dall’opera di Isaac Asimov, e la vaglia alla luce dell’epistemologia del più recente universo Matrix, collaudato dal cinema cyberpunk delle sorelle Wachowski. In tempi di riformulazioni post-romantiche e individuazioni neometafisiche, questa sperimentazione autorizza a nuove voci e produce nuove narrazioni che fanno un uso massiccio, quando non totale, di ambienti, scenari e paradigmi risultanti dalla rivoluzione ipermediale. Erano solo i primi anni Duemila, quando il progresso tecnologico promuoveva una grande fede nella virtualizzazione imminente. Non solo complesse simulazioni di vita come i famosi Second Life e The Sims, che continuavano la tradizione di videogiochi pionieristici come Little Computer People e Alter Ego, ideati negli anni Ottanta; sul volger di Millennio facevano la comparsa anche nuovi videogames dalle tecnologie sempre più immersive e specialistiche, i famosi open world brevettati da aziende come Ubisoft e Bethesda, che si sono guadagnate col tempo dignità di realtà alternative, così da trovare degna sistemazione anche all’interno della creazione artistica multimediale.

Dal videoclip di Irene Grandi, che nel 2007 col famosissimo brano “Bruci la Città” digitalizzava una sua versione in Second Life, ai più recenti esperimenti su Twitch, la piattaforma live-streaming di Amazon dove la regista Celine Song ha diretto nel 2020, su The Sims 4, una produzione del classico Gabbiano di Cechov, senza contare tutti gli adattamenti cinematografici tratti da videogiochi di successo, da Tomb Raider (2001) ad Assassin’s Creed (2016): la realtà virtuale è costantemente implementata e dibattuta, di pari passo alla sua progressiva raffinazione e ai suoi molteplici, esponenziali utilizzi. E se pure le corporazioni dei social network sembra stiano per imboccare quella stessa via virtualizzante, attraverso l’introduzione del Metaverso e l’uso preponderante dell’intelligenza artificiale generativa, allora è utile chiedersi come gli autori della Nouvelle Bug usino questo spostamento di paradigma per veicolare le proprie poetiche. Nel caso di Francesco Manzato, lombardo classe ’96 che firma la composizione di A Missed Call, il dispositivo virtuale si innesta su quello della pellicola fotografica; mentre per Simone Fiorentino, siciliano del 1995, l’esplorazione del paradigma digitale è estensione di un esercizio di stile col suo Hold on for Dear Life; non differentemente dalla Night Song of a Wondering Cowboy di Andrea De Fusco, dove il regista romano nato nel 1990 rivisita l’esistenzialismo romantico della lirica leopardiana.

“Hello. I’ve been looking for you”, dice la voce narrante nel messaggio che registra la segreteria telefonica. “Where I am now there is nothing. No people to talk with, no towns to visit. Nothing”, e sconsolata si concede a pellegrinaggi senza meta in spazi virtuali e attraverso tempi lontani. Manzato recupera dei video in Super8 girati da Luciano, il nonno che non ha mai conosciuto; sono immagini di spazi reali, abitati da umani veri: fiumi, montagne, ma anche città lontane. Il reperto fotografico è qui interpolato alle immagini del paradigma virtuale di Starfield, un videogioco di ruolo che parte dal tema ucronico dell’esplorazione nello spazio: l’avventura inizia negli anni 2330, la nostra terra non esiste più e l’umanità ha combattuto numerose guerre per il predominio coloniale. «I wonder if you have dreams and what they are like», l’avatar che prende le sembianze del nonno si profonde in interrogativi esistenziali, gli stessi che muovono l’avventura principale del gioco e, come una chiamata dal futuro, il niente che il protagonista percorre diventa quel futuro lontano da cui la sua voce parla. È un frammento, immaginario, di un testamento, reale, che trova nella post-realtà di un paradigma finzionale la sua restituzione emotiva. È la chiamata che il regista aspettava dal nonno, o quella che il nonno non ha mai potuto fare a suo nipote?

L’impianto post-bellico si rinnova nello scenario post-apocalittico di Hold on for Dear Life, che usa il paradigma di Fallout per testimoniare di un mondo devastato dalla guerra. Non a caso, l’incipit del cortometraggio reca il famoso aforisma attribuito al maestro persiano Rumi, «Ben oltre le idee di giusto o sbagliato c’è un campo. Ti aspetterò laggiù». Il messaggio poetico rivive nell’eco visuale del trascendentalismo emersoniano, piegato ora ai canoni narrativi dell’opera fondamento della Nouvelle Vague, La Jetée. Il famoso mini-film sci-fi del 1962 diretto da Chris Marker, un missaggio di brevi filmati e fotografie, drammatizzava in forma di fotoromanzo l’immagine-ricezione unendola a tematiche ambientali, narrazione confessionale e ambientazioni post-nucleari. Contemporaneamente, il franchise di Fallout ambienta l’avventura in un futuro derivato dalle ricadute del disastro radioattivo. «Dear Brian. It feels like we’re in the hands of some child, wanting for feel like God, and deciding for everyone else», la voce narrante dà corpo al quotidiano che scaturisce dall’osservazione di un paesaggio vandalizzato, un panorama digitale abitato da umani menomati e animali braccati, creando un contesto di difficile identificazione cronotopica; eppure, il contrasto tra il personalismo dell’ipostasi e la desolazione su cui essa s’innesta produce un effetto, sincero e terribile, delle implicazioni emotive della guerra sulla ricognizione individuale della vita civile.

Giocando invece col richiamo esplicito al testo-fondamento dell’esistenzialismo preromantico italiano, Il canto notturno di un cowboy errante prende in prestito il paradigma virtuale di Red Dead Redemption: la narrazione del videogioco, a differenza dei precedenti Fallout e Starfield, è ambientata nel passato, un paesaggio che ricalca il repertorio estetico dell’antico Far West di fine Ottocento ma che in realtà non esiste, proprio perché frutto di una narrazione che rivisita la storia del banditismo nordamericano. L’avvento, vissuto minacciosamente, dell’industrializzazione moderna, omologante ed opprimente, dona una nota malinconica all’epopea di un avatar-errante, che trasfigura l’interrogativo esistenziale del suo autore attraverso la scoperta, fattuale, di anomalie riscontrate nel paradigma del gioco stesso. Sono esattamente quegli spazi accessibili attraverso il noclip, le inquietanti backrooms dove il protagonista si addentra, vaga e si perde, interrogandosi continuamente sulla propria esistenza, sull’universo in cui gioca e su cosa si trovi davvero alla fine del mondo, al di là delle colonne d’Ercole: virtuali o reali che siano, non importa. Lo spazio liminale gioca qui su piani simbolici diversi, affrontando sia questioni cosmologiche sia interrogativi pratici sul perché questi spazi esistano: «Who is this world designed for? Why create this map if you don’t have to go there? Perhaps to emulate the universe we live in?»

Dal testamento affettivo che guarda alla space opera di Manzato, passando per la riflessione sulla guerra attraverso un paradigma adventure post-apocalittico di Fiorentino, approdando alla quaestio esistenzialista ambientata in una meta-farsa di costume firmata da De Fusco: queste opere, assai diverse tra loro, concepite e realizzate all’interno della Nouvelle Bug, si pongono come tentativo quello di ripensare al cinema e alle sue narrazioni attraverso l’uso di dispositivi non canonici; tutte, eppure, mi sembrano approdare allo stesso senso comune. È il desiderio di superamento, nel senso strettamente nietzschiano, del termine. To go beyond. Raccontare nel senso di attraversare lo spazio, non solo reale, ma anche virtuale; comunicare attraverso un canale differente come rielaborazione e continuazione di ciò che è impossibile negare: l’inesauribilità della nostra dialettica umana. L’eterno discorso che intratteniamo col mondo esterno, che è sempre proiezione del nostro –– o meglio, dei nostri mondi interni. Non a caso, tutte e tre le narrazioni sul piano formale sono unite dalla presenza di una voce narrante: c’è chi parla ai familiari; o chi parla agli amici; e infine, chi parla a se stesso. Sono storie, mi auguro, che possano parlare anche al pubblico che, martedì prossimo 25 febbraio, si recherà al secondo appuntamento di Indocili al Cinema Beltrade di Milano.
