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recensione a cura di alberto frosini

Reflection in a Dead Diamond di Hélène Cattet e Bruno Forzani, progetto nato da una produzione internazionale Italia/Francia/Lussemburgo/Belgio, è un’esperienza cinematografica divertente e appassionante. Il film fonde il noir thriller italiano anni sessanta e settanta con l’estetica del fotoromanzo e del fumetto pulp, destrutturando la narrazione attraverso un montaggio frenetico fatto di immagini, suoni e colori che si sovrappongono senza soluzione di continuità. Il film non si limita a narrare una storia, ma la scompone e la riassembla attraverso un montaggio serrato, in cui immagini, suoni e colori si intrecciano in un flusso ininterrotto. Il protagonista John (Fabio Testi), un dandy ormai anziano, osserva l’oceano dalla terrazza di un hotel di lusso, perdendosi nei suoi ricordi evocati dai riflessi del sole sui nipple piercings di una donna sdraiata sulla spiaggia. Quella visione lo trascina in un vortice di ricordi e allucinazioni, in cui il suo passato da sedicente spia si mescola con un’incessante sovrapposizione di realtà e immaginazione.

Reflection in a Dead Diamond
«Reflection in a Dead Diamond» di Hélène Cattet e Bruno Forzani © Cattet-Forzani

Insieme a John è presente Serpentik (Yannick Renier, Koen De Bouw, Thi Mai Nguyen e Maria de Medeiros, quest’ultima già famosa per Pulp Fiction), il nemico ubiquo, la femme fatale inafferrabile e letale, che incarna di volta in volta il desiderio, la minaccia, l’inganno. Cattet e Forzani mettono in chiaro fin da subito il loro stile, costruendo la pellicola attraverso una successione cinetica di immagini, colori acidi, zoom improvvisi e angolazioni distorte e lingue parlate. Il montaggio è sincopato e i suoni esasperati ricordano i migliori film di genere come Milano Calibro 9 di Fernando Di Leo o il primissimo Diabolik cinematografico (precendente a quello dei Manetti Bros.), diretto da Mario Bava.

Reflection in a Dead Diamond
«Reflection in a Dead Diamond» di Hélène Cattet e Bruno Forzani © Cattet-Forzani

Gli omaggi cinematografici del passato sono alla base del film, andando dal giallo all’italiana al già citato poliziottesco, da James Bond ai fumetti noir, fino al cinema più sperimentale anni sessanta e settanta. Il risultato è un lungometraggio che non racconta nel senso classico del termine, ma che vive della sua stessa estetica. Comunque non si tratta solo di mettere la forma sopra il contenuto: Reflection in a Dead Diamond è la dimostrazione che, a volte, la forma è il contenuto. Ogni inquadratura, canzone e sfumatura cromatica non serve solo a evocare un mondo, ma diventa la storia stessa; se da un lato il film è un’esaltazione del linguaggio cinematografico, dall’altro riflette sugli aspetti più controversi del cinema di genere.

Reflection in a Dead Diamond
«Reflection in a Dead Diamond» di Hélène Cattet e Bruno Forzani © Cattet-Forzani

L’oggettificazione del corpo femminile, la violenza stilizzata e un certo tipo di produzione cinematografica sono elementi su cui Reflection in a Dead Diamond riflette e insieme problematizza. L’ossessione cinefila diventa quindi sia celebrazione che critica, un gioco che affascina ma rischia di diventare un esercizio sterile. Gli spettatori senza una solida conoscenza del cinema di genere potrebbero perdersi nel labirinto di riferimenti, mentre gli appassionati ne saranno probabilmente affascinati e divertiti. Tuttavia, si potrebbe anche avere la sensazione che i registi abbiano spinto all’estremo un’estetica già esplorata in molte opere precedenti, rendendola più compiaciuta che innovativa. Con le sue immagini abbaglianti, la colonna sonora pop e il montaggio frenetico, Reflection in a Dead Diamond è un’opera radicale, capace di ipnotizzare e travolgere lo spettatore in un’esperienza sensoriale intensa. Più che un film, è una dichiarazione d’amore al cinema come linguaggio totale, un’esplosione visiva che affascina e respinge in egual misura. Forse non per tutti, ma sicuramente un cult in divenire per gli appassionati di cinema sperimentale e di genere.

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