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a cura di virginia maciel da rocha

Quando avevo undici anni, ho visto per la prima volta in vita mia «The Social Network».

La scorsa estate, dietro consiglio dellə miə amicə Emma, ho guardato un cortometraggio intitolato My Mulholland. Il film, del 2020, è diretto da Jessica McGoff e rientra nel genere del desktop movie, un video saggio “girato” direttamente sul desktop, sullo schermo di un computer. Il cortometraggio racconta una storia molto personale, ma, al contempo, universale: quando la regista aveva tredici anni, si è imbattuta per la prima volta in vita sua in Mulholland Drive (2001) di David Lynch. Non si tratta certo di un film adatto a un pubblico così giovane, ma proprio come un incidente sull’autostrada, a quel punto McGoff non poteva smettere di guardarlo e nemmeno distogliere lo sguardo; come per incantesimo era legata al film, che la terrorizzava e la attraeva inspiegabilmente allo stesso tempo. Per l’esame di cinema di animazione che sto preparando, ho dovuto riguardare, tra i vari film animati, Cars 2 (2011).

«My Mulholland» di Jessica McGoff

Avevo un bel ricordo di questo film, probabilmente perchè l’ultima volta che l’ho visto, era in sala, immediatamente dopo la distribuzione in Italia. In realtà, non mi ricordavo assolutamente di niente: oltre a una storia sostanzialmente noiosa, al grande crimine di rendere protagonista Carl Attrezzi detto Cricchetto e all’ambientazione lontana dalle lande desolate dell’Arizona, una cosa che assolutamente avevo rimosso era lo stretto collegamento che questo film aveva nella mia testa con The Social Network (2010) di David Fincher. Quando avevo undici anni, in un giorno indistinto di giugno – mi ricordo solo che la scuola era finita da poco – sono andata al cinema vicino casa mia a vedere Cars 2 e mi era anche piaciuto, ma la mia attenzione sarebbe stata catalizzata qualche mese dopo dalla visione del film di Fincher, che era appena approdato su Sky.

Social Network
«The Social Network» di David Fincher (Credits: IMDb)

Dall’inverno precedente aspettavo questo film, per nessun motivo se non per il fatto che era stato promosso come il racconto della grande avventura che avrebbe portato alla nascita di Facebook. Da dove derivava tutta questa attrazione nei confronti del social network (a cui, peraltro, avevo accesso limitato solo tramite l’account di mia madre per chattare con le mie compagne di classe, a loro volta tramite account dei loro genitori)? Erano gli anni di Farmville, Cityville, di qualche bizzarra versione dei Sims e di mille altre applicazioni di cui ora fatico a ricordarmi sia il funzionamento, sia l’interfaccia. In conclusione, ero rimasta talmente catturata dal trailer italiano del film che veniva trasmesso in televisione – con Power di Kanye West, voglio dire, Ye, in sottofondo – che non aspettavo altro che il momento in cui avrei potuto vedere The Social Network. Tra l’altro, nei frammenti di film montati in quel minuto e quaranta, avevo chiaramente riconosciuto Brenda Song, attrice che a lungo ha interpretato il personaggio di London Tipton nella serie e nei vari spin-off di Zack e Cody. Insomma, se anche le attrici delle produzioni Disney, a me tanto familiari e riconoscibili, erano finite in questo film, sicuramente potevo essere parte del target di un prodotto audiovisivo del genere. Boy oh boy, se mi sbagliavo.

Social Network
«The Social Network» di David Fincher (Credits: IMDb)

Così come Jessica McGoff, che pur rendendosene conto, ha deciso comunque di guardare un film come Mulholland Drive a tredici anni, io sono finita a guardarmi, in una banale sera infrasettimanale estiva, The Social Network. Certo, nella classifica di film non adatti ai minori, Lynch batte tutti su tutto e questo è un fatto assodato. C’è da dire anche che il desktop movie, comunque, rappresenta uno step successivo al concetto di guardare qualcosa che non è stato fatto per gli occhi di chi osserva – un po’ come il mito di Atteone, alla fine, se vogliamo dargli un risvolto poetico. McGoff si guardava il film di Lynch nella stessa maniera in cui io, due anni dopo, mi guardavo The Dreamers (2003) di Bernardo Bertolucci dal computer fisso: sul web, su un sito streaming di dubbia qualità, con altre cento schede aperte “per sicurezza”. Con l’aiuto di internet – ah, che strumento prezioso! – sono riuscita a recuperare qualche data sulla messa in onda del film di Fincher su Sky Cinema Italia, avvenuta il 5 settembre 2011. Una settimana dopo avrei iniziato le scuole medie, e, a posteriori, devo ammettere che fa impressione pensare al fatto che un’estate intera di film – d’animazione e non – sia stata cancellata da quello che i giovani, oggi, chiamerebbero un canon event, un evento canonico, un “da qui non si torna più indietro”.

Social Network
«The Social Network» di David Fincher (Credits: IMDb)

Forse già dai primi cinque minuti di film (forse no, sicuramente da dopo la conversazione / partita a tennis tra Eisenberg e Mara) mi ero resa conto che non avevo l’età per guardarlo. Ma ormai non mi interessava, avevo abbracciato tutta l’incoscienza che avevo in corpo (ma preferisco chiamarla curiosità): il film era iniziato e io ero sintonizzata, la scatola era aperta, il gatto era morto. Ricordo che poche cose hanno attirato così tanto la mia attenzione quanto quel film, lasciandomi, però, un sacco di domande a cui non sapevo dare una risposta. Sarebbero stati così i miei anni universitari? Che cosa mi avrebbe riservato il futuro dopo il liceo – considerando che dovevo ancora iniziare le medie? Si poteva bere birra mentre si studiava? E soprattutto, si poteva studiare al computer e non sui normali libri?! Che spasso, gli Stati Uniti d’America! E infatti, per tutti i tre anni successivi, non avrei avuto altra ambizione al di fuori di entrare in un college statunitense. That was the life. A scanso d’equivoco: arrivata a quattordici anni ho letto Orwell, ho studiato le basi del socialismo, ho capito che negli Stati Uniti sarei solo potuta andare in vacanza (a oggi dico: un annetto a San Francisco, tutto sommato, me lo farei) ed è andata a finire che mi sono iscritta a lettere all’Università di Firenze.

Social Network
«The Social Network» di David Fincher (Credits: IMDb)

Guardando The Social Network, forse, oltre ad aver scoperto alcune di quelle che sarebbero diventate grandi passioni nella mia vita (il cinema di Fincher, Andrew Garfield e Jesse Eisenberg), ho fatto i conti per la prima volta con il fascino del proibito. Anche da bambina, come ora, ero, tutto sommato, una persona noiosa: non andavo troppo contro quello che dicevano le maestre in classe, me ne stavo per conto mio invece di prendere parte ad atti di bullismo più o meno gravi – sempre all’ordine del giorno – e non mi importava di buttarmi a capofitto in quelle che mio nonno avrebbe potuto definire “marachelle”. Però, nel momento in cui tutte quelle parolacce proferite da Zuckerberg / Eisenberg avevano iniziato ad attraversare le mura del mio salotto, da una parte all’altra, che sensazione! Via via che il film procedeva, in me si creava un cortocircuito: come potevo stare dalla parte del protagonista, nonostante si comportasse così male con le ragazze intorno a lui? E con il suo migliore amico Eduardo, addirittura! The Social Network mi incantava: per la prima volta mi rendevo conto che non era obbligatorio stare dalla parte o fare il tifo per il protagonista, potevo anche solo essere una spettatrice distaccata – e profondamente giudicante. Alcuni personaggi nella storia avevano chiaramente torto, ma chi, tra tutti, aveva ragione? Forse stavo dalla parte di Eduardo Saverin / Andrew Garfield perchè, tra tutti, aveva la faccia del bravo ragazzo. O forse perchè era stato il più bullizzato (giuridicamente e non) da quel traditore del suo migliore amico. Certo è che non potevo fare il tifo per Justin Timberlake, soprattutto dopo tutto quello che aveva fatto a Britney – off the record: non ho mai usato Napster, ma solo ed esclusivamente LimeWire.

Social Network
«The Social Network» di David Fincher (Credits: IMDb)

Dalla visione di questo film ne sono uscita cambiata. Non perchè ripetessi le brutte parole che i personaggi continuavano a scagliarsi a vicenda per tutte le due ore di durata, ma perchè poi, grazie a quello strumento meraviglioso che è internet (non so se si capisce che il film, in questo caso, è molto di parte) avrei scoperto che Andrew Garfield mi aspettava al cinema qualche mese dopo con The Amazing Spiderman. E a quel punto, avrei potuto chiedere ai miei genitori di portarmi in sala. Tutto sommato, nonostante mi sia imbattuta in questo film come aprendo il vaso di Pandora, mi ritengo fortunata ad aver visto The Social Network a quell’età: pensate a chi lo guarda oggi per la prima volta e romanticizza tutti i comportamenti del tardo-iper-ultra-mega capitalismo (sessismo e maschilismo tossico annesso). I dodged a bullet, there!

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