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Di che cosa parliamo, quando parliamo della prossima edizione degli Academy Awards, detti Oscar? Abbiamo provato a mettere insieme, in questa sorta di tavola rotonda, pensieri, parole, opere, omissioni e tutto quello che ci è passato per la testa. Prendete sul serio queste nostre parole, ma con moderazione.

«The Brutalist» di Brady Corbet (Credits: A24)

pavel

Lunedì 23 gennaio diverse sorprese hanno accompagnato l’annuncio delle candidature agli Oscar di quest’anno: partendo dall’effettiva conferma della cerimonia, in standby a causa degli incendi che imperversano nella contea di Los Angeles, arrivando alla scelta di Bowen Yang e Rachel Sennott per annunciare le nominations stesse – abbiamo bisogno di più newyorkesi sulla West Coast. Niente di tutto questo, però, mi ha preparato a costatare i grandi assenti che invece mi aspettavo di vedere in finale. E non parlo della mancata nomination di Vermiglio di Maura Delpero (non mi piace quel film né mi consola la quota italiana strappata dalla nomination in Best Supporting Actress di Isabella Rossellini per Conclave); né di quella a Pamela Anderson in Best Leading Actress per The Last Showgirl, che ai Golden Globes aveva brillato anche troppo (l’Academy Award Nominee Pamela Anderson è destinata a rimanere un’allucinazione collettiva); nemmeno nutrivo grandi speranze per la magica Tilda Swinton di A Room Next Door. Forse però, dato che hanno nominato anche il regista di cinecomic James Mangold per il biopic su Bob Dylan A Complete Unknown (interpretato da Timothée Chalamet), allora pure Almodóvar-che-tributa-Almodóvar qualcosa se lo meritava.

Elle Fanning e Timothée Chalamet in «A Complete Unknown» di James Mangold (Credits: Searchlight Pictures)

Certo, alcune candidature sono auspicabili, come le 13 per il gangster music hall sui generis Emilia Pérez e le 10 per The Brutalist, l’epica grandiosa sulle conseguenze infauste della Bahauas; altre sono da celebrare, come quelle di Mikey Madison in Best Leading Actress e Sean Baker in Best Directing per Anora, l’ultima fatica del genio indie consacrato dall’ultima edizione di Cannes; altre lasciano di stucco, come le Best Supporting Actor e Best Leading Actor di Jeremy Strong e Sebastian Stan per The Apprentice, lo spietato coming-of-rage sulla creazione di Donald Trump; altre infine lasciano un po’ perplessi, come quelle per i lunghi divertissement da fan di nicchia Wicked e Dune – cinque anni fa i diritti di queste opere li avrebbe acquisiti giusto Hulu per farci una lunga antologia televisiva con Emily Mortimer o qualche altra attrice BBC, ora pure le stelle di Disney Channel concorrono agli Oscar, ma va bene così – che rubano posti dalle cinquine più agognate, tra cui anche Best Picture. Ma, più sconvolgente dell’Academy Award Nominee Ariana Grande è l’Academy Award Non-Nominee Nicole Kidman, che senza il riconoscimento per la sua pazza performance in Babygirl lascia fuori dalla competizione anche la regia di Halina ReijnShe’ll always have Venice, though. Tutti facciamo il tifo per Demi Moore in The Substance, che frutta a Coralie Fargeat la nomination in Best Directing – unica presenza femminile nella rosselliniana all-male list. Alla storia di una donna in cerca di piacere, l’Academy preferisce quella di una donna che rincorre la propria immagine, ovvio.

Nicole Kidman in «Babygirl» di Halina Reijn (Credits: A24 / Eagle Pictures)

All things considered, a sorprendermi di più, e non in positivo – questo sconvolgerà anche voi che conoscete le mie posizioni in merito – è l’assenza di Luca Guadagnino: con ben due opere in competizione questa stagione, il sinestesico triangolo amoroso nel mondo del tennis Challengers e l’affettato adattamento del romanzo di Burroughs Queer, al nostro italiano preferito non hanno lasciato neanche una briciola nelle categorie tecniche, dove pure Robert Eggers ha raccattato qualcosa per il suo sfortunato Nosferatu. Gli Oscar di quest’anno mi sembra sanciscano l’ingresso del Mostruoso all’interno del cinema da premiare, a patto che si osservino alcune condizioni: alle sublimazioni dell’inconscio sono preferibili le modificazioni dello showbiz; le streghe vanno bene solo se cantano o se sono verdi –– o tutte e due le cose; viva l’intersezionalità di ogni genere, basta che non si gridi al Queer. Sinceramente, non so chi tifare a ‘sto giro. Forse starò con la squadra della pagnotta. Di sicuro, so cosa sperano i giovani romani: hanno già invitato Isabella al Troisi per una retrospettiva sul padre. Mi chiedo, alla fine di tutto, se le votazioni di quest’anno non siano state inquinate dalla combustione che da settimane avvolge le aride valli della California. Se tutto regge, e il Dolby Theatre non crolla, ci vediamo domenica 2 marzo. 

«Queer» di Luca Guadagnino (Credits: A24 / Lucky Red)

virginia

Altro giro, altra corsa, stesse delusioni. A nessuno importa mai davvero degli Oscar – no, non sarà certo una statuetta dorata conferita in base a interessi politici a giudicare il valore di un film, sia mai! Certo, a nessuno importa fino a che non arriva il momento delle candidature e lì non c’è santo che tenga: per me è il momento dell’anno in cui mi ritrovo a fare un tifo sfegatato per attori che, a cose normali, neanche mi ricordo che esistono; a insultare la Pixar come non mai (succede almeno dal 2018, quando Coco ha soffiato una statuetta a Sufjan Stevens / Call me by Your Name); a giudicare gli abiti e la conduzione della serata più glamour dell’anno. Gli Oscar sono, per me, una sorta di mondiale di calcio annuale: un evento unico, che riunisce la comunità di cinefili attorno al globo, che mi costringe a stare sveglia a orari improponibili e che accende in me un’insolita ludopatia. E per questo, ogni anno, li aspetto a gloria. Entrando nello specifico nell’edizione 2025, alla fine, per poche categorie mi ritrovo a fare un grande e sproporzionato tifo – del resto, poco mi importa.

Fernanda Torres in «Ainda Estou Aqui» di Walter Salles (Credits: Bim Distribution)

Ho recuperato solo qualche giorno fa tutta la polemica sorta tra le due attrici candidate a miglior attrice protagonista, Karla Sofia Gascón per Emilia Perez di Jacques Audiard e Fernanda Torres per Ainda Estou Aqui di Walter Salles. Non ho odiato Emilia Perez, e nemmeno l’ho amato: sono andata al cinema in un’anteprima senza neanche sapere che fosse un musical, bizzarro ma non troppo, sicuramente dalla durata eccessiva, le canzoni non mi sono piaciute, ma quelle due ore, alla fine, sono trascorse senza troppi problemi. Per il film di Salles, invece, sono proprio di parte: Torres quell’Oscar se lo merita davvero – se non altro per vendicare la madre, Fernanda Montenegro, che fa un breve cameo sul finale del film, a cui era stata sottratta la statuetta nel lontano 1999 da Gywneth Paltrow. Montenegro era protagonista di uno dei migliori film degli ultimi trent’anni, Central do Brasil, sempre di Salles; Paltrow di quel pietrificante prodotto audiovisivo che passa in televisione con il nome di Shakespeare in Love. Lascio a voi le conclusioni.

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Zoe Saldana e Karla Sofia Gascon in «Emilia Perez» di Jacques Audiard (Credits: Netflix / Lucky Red)

Grande assente, enorme assente, mi si spezza il cuore assente, è Queer di Luca Guadagnino, in uscita a breve in Italia, anche se inizialmente la distribuzione era prevista per aprile. Fortunatamente l’ho recuperato in… quel viaggio che ho fatto a Londra… dato che nei paesi anglosassoni è uscito in VOD un mese e mezzo fa (cof cof, sure thing, Jen) e ne sono rimasta abbagliata. Niente a che vedere con quel mild film, alla fine dei buoni sentimenti, dove lo sport vince, un po’ alla libro Cuore di de Amicis, che era stato Challengers: non mi importa della colonna sonora e tantomeno di Zendaya, che per me non ha alcuna credibilità sullo schermo in veste di una trentacinquenne? O qualsiasi sia l’età scenica che dovrebbe avere quando le tagliano i capelli. Queer, invece, boy oh boy! Difficile trattenere le lacrime fin dai primi frame, in cui si sente All apologies di Sinead O’Connor: in un Messico-non-Messico, che alla fine potrebbe essere ovunque (nello specifico, è Cinecittà) Daniel Craig si muove solo e disperato, come un lone ranger nel deserto, vagando, errando, senza trovare la sua meta o la strada di casa. Beh, nessuno dei due film di Guadagnino è stato candidato agli Oscar. A Hollywood non piace la solitudine.

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Daniel Craig in «Queer» di Luca Guadagnino (Credits: Yannis Drakoulidis)

Come era successo in quella fatidica edizione del 2018, anche quest’anno Timothée Chalamet torna a essere nominato come miglior attore per la sua interpretazione di Bob Dylan. Sì, ok, era meglio Cate Blanchett, Dylan non avrebbe mai voluto una cosa del genere (ma che ne sapete, lo conoscete?), Chalamet forza il timbro della propria voce, Elle Fanning è troppo bionda, Monica Barbaro troppo mora, tremila altre critiche e tutto quello che volete. A me il film non è dispiaciuto, nel suo essere un tradizionalissimo e classicissimo biopic hollywoodiano dal budget esorbitante. Forse Adrien Brody ha compiuto uno sforzo titanico nell’interpretare l’architetto Laszlo in The Brutalist, forse lo ha compiuto pure Chalamet ma lo spettatore ne vede meno “gli effetti”, dato che, alla fine, si tratta di un biopic musicale – che poi, l’altro è un biopic fittizio. Tifo Chalamet perchè siamo praticamente coetanei, per i buoni sentimenti e l’affetto e perchè se lo meritava nel 2018 l’Oscar, non ora, anche se, diciamocelo, alla fine cosa mi cambia? Nel dubbio, quando le quote erano alte, cinque euro su Timmy li ho puntati. Ora sta a 2,75…

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Timothée Chalamet in «A Complete Unknown» di James Mangold (Credits: Searchlight Pictures)

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Più leggo “think pieces” e opinioni online sullo stato degli Oscar di quest’anno, più mi chiedo se qualcuno abbia, oggi più che mai, un’idea chiara su che cosa questi premi rappresentino. Da una parte, gli Oscar fanno parte una realtà mainstream e populista (perlomeno nel mondo americano), sicuramente non definibile di nicchia o di ricerca. Dall’altro, la possibilità di creare a tavolino un film da Oscar, che “piace a tutti”, sembra essere sempre più difficile: esempio schiacciante è che a ottenere il maggior numero di candidature quest’anno sia stato Emilia Perez, un musical (già qui partiamo con un genere difficile) francese (quindi straniero) in spagnolo (quindi coi sottotitoli) sul narcotraffico e su una persona transgender (temi… caldi). Il film che vince tutti gli Academy Award degli anni Duemila o Dieci, ovvero quello che tratta di un tema importante e attuale ma non troppo radicale, con qualche nome di punta nel cast e nella crew, prodotto da una storica casa di produzione di Hollywood, ormai non rappresenta più una garanzia di successo. Tra la vittoria di Moonlight, che ha segnato l’ingresso definitivo delle case di produzione indipendenti come A24 nella corsa al Miglior Film, ma anche eventi come la pandemia di Covid-19 o lo sciopero degli attori e sceneggiatori hanno trasformato il significato dell’espressione “film da Oscar” e modificato l’aspetto che può avere una campagna promozionale intorno ad esso. Ad esempio, la tanto malcapitata sorte di Challengers, con le sue zero candidature, è soprattutto attribuibile allo sciopero, che ne ha spostato la distribuzione di sei mesi e di fatto relegandolo al di fuori della stagione dei premi dell’anno scorso. 

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Karla Sofia Gascon in «Emilia Perez» di Jacques Audiard (Credits: Netflix / Lucky Red)

Ma cosa è successo all’Academy negli ultimi anni? Se nel 2019 ancora si stava dibattendo se un film uscito direttamente in streaming e non nei cinema fosse qualificabile o meno per una nomination, la pandemia ha completamente eliminato il problema – permettendo non solo a case di produzione come Netflix una volta per tutte di aumentare la propria credibilità critica (e di conseguenza il proprio capitale) ma anche a produzioni più piccole di entrare in gara: basti pensare a CODA, vincitore dell’Oscar per il Miglior Film nel 2021, nonché primo film distribuito esclusivamente in streaming ad ottenere il premio. Dopo la vittoria di Parasite, il primo film non in lingua inglese a vincere Miglior Film, l’Academy ha cercato di introdurre nuovi membri con lo scopo di diversificare il campo degli elettori: gli unici modi per entrarci sono o su invito o ottenendo una nomination – e, guardando alla storia di Hollywood degli ultimi 97 anni, non stupisce il fatto che la maggior parte dei membri dell’Academy siano quindi uomini bianchi etero dai cinquanta in su. Questa progressiva internazionalizzazione sia degli elettori che delle candidature ha in un certo senso raggiunto la prassi dopo il primato di Bong Joon-Ho: negli ultimi anni non è stato insolito vedere lo stesso film candidato sia come Miglior Film che Miglior Film Internazionale. Un caso interessante è stato quello di Anatomia di una caduta l’anno scorso, presente nei nove titoli candidati a Miglior Film ma non nella categoria Internazionale, dal momento che la Francia ha scelto un altro film per rappresentare il paese (si dice) a causa dei commenti della regista Justine Triet sul governo Macron.

Sandra Huller in «Anatomia di una caduta» di Justine Triet (Credits: A24)

Il fatto che produrre un “film da Oscar” sia diventato leggermente più imprevedibile negli ultimi anni non è per forza una cosa negativa: per quanto io non apprezzi Emilia Perez, è più che evidente che si tratti di una produzione nata lontanissima dall’idea di fare incetta di Oscar (al limite loro pensavano alla Palma d’Oro). Se ci chiediamo per chi siano in fondo gli Oscar però, la situazione cambia. Dopotutto, il cinema è un’industria, e per Matthew Belloni, autore del podcast The Town, pensato per chi lavora nel mondo di Hollywood, gli Oscar esistono senza dubbio solo e soltanto per un gruppo: le case di produzione. La volontà di celebrare il grande cinema anno dopo anno sarà anche sincera, ma sarebbe impossibile scinderla completamente dalle meccaniche economiche insite nella gara per le statuette. Da questo punto di vista la Hollywood Foreign Press Association sembra aver deciso di abbandonare completamente le apparenze: durante la recente cerimonia dei Golden Globe, su una delle pareti è stato proiettato per l’intera serata un tabellone con il numero di vittorie divise per casa di produzione.

Oscar

In un mondo in cui Emilia Perez diventa il prototipo del nuovo “film da Oscar”, le case di produzione ricevono il via libera per la mercificazione di storie queer in cui, di fatto, la componente LGBT+ è poco più di un pretesto narrativo: abbastanza per essere identificata come “liberale”, troppo poco importante per avere una seria connotazione politica. Risultato? Un prodotto che piace a tutti. Certo, sempre meglio che niente.

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