Di che cosa parliamo, quando parliamo dei migliori film del 2024? Abbiamo provato a mettere insieme, in questa sorta di tavola rotonda, pensieri, parole, opere, omissioni e tutto quello che ci è passato per la testa durante (e dopo) la visione dei film. Prendete sul serio queste nostre parole, ma con moderazione.

virginia / procurando o oriente
Mi rendo conto che sia difficile parlare di film migliori o peggiori dell’anno appena trascorso, per vari motivi. In primis, con tutti questi festival e anteprime, la mia mente per niente STEM fatica molto a capire quale sia l’effettiva data di uscita di un prodotto cinematografico in sala. Io The Zone of Interest l’ho visto a ottobre 2023, alla Festa del Cinema di Roma, in che senso, invece, è un film del 2024?! Stessa cosa vale per più o meno tutto quello che sono andata a vedere, la confusione è grande, il dibattito che sorge successivamente all’uscita di un film – che sia questo a Cannes o a Venezia – non fa altro che alimentare il mio grande disorientamento. Per non parlare, infine, del dramma delle uscite in VOD: Queer in Italia deve uscire ad aprile, ma a Venezia lo hanno già visto, però io l’ho recuperato in VOD perchè nei paesi anglosassoni hanno questa fortuna anticipata. Ai Golden Globes si stava ancora a parlare della puntata precedente diretta da Luca Guadagnino, Challengers, di che anno è, questo film? Sfogo e polemica – e, soprattutto, mia incapacità di contare – a parte, mi ritrovo qui a difendere due film che purtroppo sono passati in sordina: uno perchè – mi sono informata, lo giuro – deve ancora essere distribuito in sala, in Italia; l’altro perchè hanno deciso di farlo uscire al cinema il 5 dicembre scorso, senza troppa pubblicità o enfasi. Sto parlando di Ainda Estou Aqui di Walter Salles, presentato durante lo scorso Festival di Venezia e di Grand Tour di Miguel Gomes, presentato in concorso alla 77° edizione del Festival di Cannes.

Sul primo film ho già scritto una lunga e accorata riflessione, ma sottolineo che attualmente la protagonista Fernanda Torres, dopo la meritata vittoria ai Golden Globes (si sa, le vittorie sono meritate solo quando premiamo i nostri preferiti), è in lizza per contendersi l’Academy Award come migliore attrice protagonista. Sul secondo, invece, non ho ancora detto o scritto niente e due parole, caro il mio Miguel, se le merita – anche se inizialmente mi sono dispiaciuta di non rivedere l’attore-feticcio di Gomes, Carloto Cotta, fare coppia con Crista Alfaiate, ma Gonçalo Waddington ha fatto un ottimo lavoro, al suo posto. Grand Tour è una storia di formazione molto antonioniana (si dice?), insomma, in questo film ci ritroviamo una buona dose di Avventura (1960). Personaggi che appaiono e scompaiono, un film perfettamente simmetrico che si gioca sulla assenza-presenza dei due protagonisti, invitano lo spettatore a salire a bordo di questa fantasiosa giostra – il riferimento è esplicito, con gli intermezzi registrati al luna park e durante lo spettacolo di marionette balinesi – e a fare un giro per l’Asia coloniale. I due personaggi principali, boriosi e annoiati ricchi borghesi di stanza in Oriente, rifiutano e ricercano una validazione della loro relazione, da ritrovarsi nel vincolo – nella letterale catena, come ci insegna il latino – del matrimonio. La vita piega Edward (Waddington) e fa ridere a crepapelle Molly (Alfaiate): due lati di una stessa medaglia, incapaci di reagire di fronte a ciò che pone loro davanti il destino e l’imprevisto.

alberto / panoramica
Tra i migliori film del 2024, All the Long Nights di Shō Miyake è uno slice of life poetico e intenso che intreccia commedia e dramma, esplorando con sensibilità e autenticità le difficoltà quotidiane. Attraverso le fragilità emotive di due giovani giapponesi, il film valorizza i piccoli gesti, le relazioni umane e momenti di spontanea comicità con straordinario realismo. Si affianca a Spaceman di Johan Renck, un’esplorazione fantascientifica intensa e surreale che indaga il rapporto tra l’uomo, l’immensità dello spazio e i limiti della terra. George Miller torna a sorprendere con l’incredibile film action Furiosa, espandendo nuovamente l’universo di Mad Max, mentre Sean Baker emoziona con Anora, una commedia nera con tinte drammatiche che trova il suo punto di forza maggiore in una serie incredibile di personaggi. Chiude The Zone of Interest, un’opera intensa che svela la quotidianità di una famiglia di nazisti durante la Seconda guerra mondiale, residente accanto ad Auschwitz. L’umanizzazione della banalità del male, attraverso il ritratto sincero e spietato di queste vite, risulta particolarmente efficace proprio per la sua onestà.

marco / the zone of interest
Una sequenza di fiori rigogliosi in un curatissimo giardino. In sottofondo, l’abbaiare dei cani e il ronzio di alcuni insetti (api o mosche?). A poco a poco, delle urla disperate si fanno sempre più forti e tutto lo schermo si tinge di rosso. Campo e controcampo, vita e morte: lo splendido The Zone of Interest di Jonathan Glazer si potrebbe riassumere con questa scena, che sintetizza e porta avanti decenni di discussioni attorno all’immagine concentrazionista. Come nella poesia (si pensi ad Adorno), il tema della rappresentazione cinematografica dell’Olocausto è stato dibattuto fin dal secondo dopoguerra: autori e critici fondamentali come Jean-Luc Godard[1] e Jacques Rivette[2] hanno scartato l’opzione realista, vista come pulsione pornografica verso la tragedia e assuefazione all’orrore. Più in generale, Michele Guerra[3] si sofferma sull’importanza del controcampo, data l’impossibilità di raccontare l’esperienza nei campi nella sua totalità, anche da parte dei superstiti. Numerosi film vanno in questa direzione: su tutti, Nuit et Brouillard di Resnais e Saul Fia di László Nemes, opere capaci di rispettare la letteratura concentrazionista e utilizzare tecniche cinematografiche innovative per raccontare in maniera etica l’Olocausto. Jonathan Glazer riprende le idee di entrambi i capolavori, alternando le immagini del presente con quelle del passato e sfocando ciò che non può essere raccontato tramite la macchina da presa, focalizzandosi sull’incantevole residenza degli Höß, situata accanto ad Auschwitz. Purtroppo, come menzionato dal regista nel coraggioso discorso agli scorsi Oscar, la tendenza a guardare altrove di fronte a un genocidio che sta accadendo vicino a noi è fin troppo presente nel mondo odierno.

A questa trovata si aggiungono altri temi che rendono l’opera una delle più stratificate del corrente decennio. In primis, i gerarchi nazisti vengono rappresentati come metodici ed efficienti quadri dirigenziali di una grande azienda, riprendendo in parte quanto proposto da Hannah Arendt. Questa proposizione, inoltre, fa riflettere sull’odierna società post-capitalistica, mentre il finale può riprendere, in piccola parte, i risultati degli esperimenti sull’agentività proposti da Stanley Milgram[4]. Inoltre, le scene riguardanti le visioni notturne hanno suscitato interesse e molte ipotesi[5]. La ragazza che lascia il cibo nei luoghi di lavoro dei prigionieri è Aleksandra Bystroń-Kołodziejczyk, figura realmente esistita e citata da Glazer nel già menzionato discorso degli Oscar. La più evidente chiave di lettura vede la ragazza come l’unico punto di resistenza e di luce in tutto il film e come mezzo per evidenziare il contrasto tra l’innocenza e l’orrore circostante.

Nonostante la sala non fosse delle migliori per fruire dello straniante audio del film (ancora un ottimo lavoro di Mica Levi) e mi aspettassi meno innovazioni rispetto a Nemes, una volta uscito mi sono sentito convinto da quanto avevo visto, particolarmente turbato allo stesso tempo. Da quel momento, ho continuato a pensare a The Zone of Interest ogni volta che ricordo i film più significativi degli ultimi anni, e lo sto utilizzando, più o meno inconsapevolmente, come benchmark per ogni opera contemporanea che ho visto successivamente. Per questo motivo, l’ultimo lavoro di Glazer non è solo il mio film preferito tra le uscite italiane del 2024 ma anche di questo decennio.
[1] Heywood, M. (2009). Holocaust and image: Debates surrounding Jean-Luc Godard’s Histoire(s) du cinéma (1988–98). Studies in French Cinema, 9 (3), 273–283.
[2] Drumbl, Mark, The Kapo on Film: Tragic Perpetrators and Imperfect Victims (October 20, 2016). Washington & Lee Legal Studies Paper No. 2016-13, 6 Griffith J.L. & Hum. Dignity 229 (2018).
[3] Guerra, M. (2020). Il limite dello sguardo: oltre i confini delle immagini. Raffaello Cortina Editore.
[4] Russell, N., & Gregory, R. (2005). Making the Undoable Doable: Milgram, the Holocaust, and Modern Government. The American Review of Public Administration, 35(4), 327-349.
[5] Reyes, R., & Gillen, D. (2024). Film Review: The Zone of Interest. History in the Making, 17(1), 19.