recensione di giulia giovannini
Quando ho scoperto che A Complete Unknown di James Mangold avrebbe avuto una sua premiere a Roma, non ho potuto fare a meno di pensare alla portata dell’evento e all’impatto che avrebbe avuto sul grande pubblico. Ho tentato di distaccarmi almeno un po’ dalle reazioni entusiaste e l’attesa attorno alla figura di Timothée Chalamet, ormai vero simbolo del divo hollywoodiano, tuttavia con scarsi risultati. Lo ammetto, il mio hype per questa proiezione era alto e devo dire che, complessivamente, le aspettative sono state soddisfatte.

C’è qualcosa di profondamente affascinante nel rapporto che si instaura con un artista capace di toccarti l’anima. Per me, a quindici anni, Bob Dylan è stato molto più di un musicista: è stato una musa. Lo ascoltavo a ogni ora del giorno, persino di notte, come se le sue canzoni potessero svelarmi chissà quali verità nascoste. Ma non si trattava della classica ossessione per un idolo. Ho sempre ammirato Dylan come persona, ma il fulcro del mio interesse non è mai stato lui in quanto individuo. Era ciò che rappresentava, e che tutt’oggi rappresenta, a incantarmi.

La sua musica non era solo un sottofondo, era un confronto costante che mi spingeva a riflettere su temi forse troppo grandi per un’adolescente: la libertà, l’identità, il cambiamento. Dylan non mi dava risposte, ma apriva nuove domande, e tanto bastava. A distanza di anni, non posso che ringraziarlo per aver dato alla me di dieci anni fa una spinta a interrogarmi sulla vita, anche se, oggi, capisco meglio il suo cinismo. Scusa Bob, troppo sentimentale? Forse. Credo quindi sia stato questo rapporto unico con Dylan che mi ha portato ad apprezzare A Complete Unknown. Basato sul libro Dylan Goes Electric! di Elijah Wald, il film si concentra sull’inizio della carriera di Dylan: il suo arrivo a New York, l’avvicinamento alla musica folk e all’attivismo e il controverso passaggio alle sonorità elettriche che tanto hanno diviso il pubblico. Mangold non cerca di spettacolarizzare la figura dell’artista, e questa scelta, che potrebbe essere vista come una mancanza di innovazione nel genere dei biopic, a me è sembrata una scelta azzeccata. Non c’è un tentativo di sovraccaricare la narrazione, ma piuttosto un’esplorazione delicata e rispettosa dell’enigmatica figura di Dylan.

Il cuore del film, tuttavia, è la musica. Mangold riesce a mostrare la potenza che le canzoni possono avere se messe nelle giuste mani. Non è solo il genio musicale di Dylan a brillare, ma anche la forza delle sue parole e la sua indole ribelle. Canzoni come Blowing in the Wind, The Times They Are a-Changin’ o Like a Rolling Stone non sono solo brani iconici, ma vere e proprie armi di cambiamento. Allo stesso tempo, il film ci mostra un Dylan talvolta appesantito dalla fama della sua stessa musica, un peso che lo ha spinto nel corso della sua vita a reinventarsi e a rimanere sempre sfuggente.

Sono passati ormai diversi anni dalla primissima volta che lessi dell’esistenza di un futuro biopic su Bob Dylan, ancora senza titolo. Ai tempi, oltre a essere grande fan del cantante ero anche, forse a tratti esageratamente, fan di Timothée Chalamet. La mia opinione su di lui a oggi si è fatta più realistica; tuttavia, non perderò mai occasione di ribadire che come attore non mi ha mai delusa. Chalamet offre un’interpretazione intensa, vera, accurata, dando giustizia all’enigma stesso che è Bob Dylan. Mangold esplora questa figura senza cercare di spiegarla ossessivamente. Quando sono comparsi i titoli di coda mi sono trovata a guardarmi intorno, quasi incredula: era già finito? Questo lasciare un po’ il tutto in sospeso a quel 1965, invece di essere un difetto, è un riflesso perfetto di Dylan stesso, nonostante noi sappiamo benissimo che la carriera di Dylan, ancora in corso, l’ha portato poi a pubblicare centinaia di canzoni e tutt’oggi gira il mondo con la sua musica.

Rimane un “completo sconosciuto”, capace di rispecchiare in ognuno di noi ciò che cerchiamo. E proprio come quella voce che mi parlava nel cuore della notte senza mai rivelarsi del tutto, Bob Dylan continua a essere un enigma, un’ispirazione senza tempo che non smetterà mai di ricordarmi che: «The line it is drawn, the curse it is cast / The slow one now will later be fast / As the present now will later be past / The order is rapidly fadin’ / And the first one now will later be last / For the times they are a-changin’».