intervista a cura di virginia maciel da rocha
In occasione della prima non-conferenza degli archivi, The Past is the Future, organizzata dalla Cineteca dello Stretto a Ortigia dall’8 al 10 novembre, abbiamo incontrato l’Archivio Alpaca. Il progetto, ideato e portato avanti da Valentina Savi e Noemi Gentiluomo, si occupa di creare un fondo collettivo di pellicole e di digitalizzarle. Archivio Alpaca parteciperà al panel dei Casi Studio, che si svolgerà nella mattinata del 10 novembre. Nel frattempo, e in attesa dell’incontro con il pubblico, abbiamo scambiato due chiacchiere.
Iniziamo dall’inizio, come dicono gli anglosassoni, first things first. Come nasce l’Archivio Alpaca, da quali necessità ed esigenze è venuto fuori questo progetto di recupero e riutilizzo di immagini su pellicola e quali sono gli obiettivi che, fino a ora, vi siete poste?
Valentina: Una domenica di dicembre del 2023 mi trovavo per caso a Porta Portese insieme ad un mio amico, Filippo Corsi. Ci siamo imbattuti in un banchetto con circa un’ottantina di pellicole tra super 8, 16 mm, 8 mm, diapositive e scarti di 35 mm. Dopo poco abbiamo acquistato le pellicole home movies sopracitate, in questo caso provenivano principalmente da famiglie di Roma Nord (in particolare, faccio riferimento a quei quartieri che si trovano tra Prati, Balduina etc…). Il nome Alpaca è nato un po’ per caso proprio come questo progetto, mi ricordo che avevamo la macchina parcheggiata di fronte a un chiringuito peruviano e dal peluche di un Alpaca gigante che si trovava lì davanti è nato il nome del progetto. Inizialmente ci siamo limitati a proiettare le bobine insieme ad altre persone interessate e appassionate, soprattutto per vedere che cosa avessimo “pescato”. Durante queste proiezioni casalinghe si è aggiunta una figura fondamentale per il progetto, Noemi Gentiluomo, operatrice di macchina da presa e tecnica della pellicola che ci ha aiutato con proiettori e mezzi tecnici, oltre ad aver aggiunto altre pellicole al nostro fondo, che stiamo finendo di digitalizzare. Il fine ultimo è depositare le pellicole in vari archivi italiani, dividendole per tematiche di interesse e creare una sorta di archivio decentralizzato. Inoltre, vorremmo che queste memorie perdute possano in futuro essere l’oggetto di ricerca per studi universitari e non, fonti per prodotti audiovisivi non commerciali e, speriamo a breve, con l’aiuto di fondi pubblici, progettare una residenza per giovan* artist*, in modo tale che queste pellicole riemergano alla “luce” in una forma ibrida e risemantizzata. Avremo però modo di discutere queste idee presso la conferenza indetta a Ortigia dalla Cineteca dello Stretto (8-10 novembre 2024), The past is the future.
Noemi: Se dovessi rappresentare con un’ immagine il senso di tutto ciò a cui rimanda per me il concetto di archivio, mi rifarei alla marea del pianeta Soljaris: una coscienza fluida, un vortice palpitante di sogni e ricordi che riaffiorano nella mente di colui che li custodisce. Così come al protagonista del film, lo psicologo Kris Kelvin, succede di proiettare in quel magma liquido le più intime reminiscenze e ossessioni, allo stesso modo colui che ha la fortuna di imbattersi nelle memorie impresse su pellicola di uomini e donne qualsiasi, entra nel vivo della loro stessa esistenza, appropriandosi dei momenti più significativi delle loro vite (rituali, ricorrenze, avvenimenti del tutto eccezionali, attimi irripetibili che valeva la pena di immortalare) e nel momento in cui le proietta, a differenza del dottor Kelvin, le cui visioni rimangono immateriali e impenetrabili, le rende consistenti e tangibili ai più. La bellezza e il fascino impliciti in questa pratica di reviviscenza del passato attraverso le immagini consiste nella riattribuzione di senso che avviene nella mente non solo di chi proietta, ma anche e soprattutto di chi osserva, lo spettatore, che si serve dell’archivio per motivi più disparati.
La pellicola viene considerata da alcuni teorici e primi cineasti il mezzo per eccellenza per catturare l’essenza della natura, per racchiudere la matericità degli elementi atmosferici e non. Se pensiamo alle teorie sulla fotogenia di Jean Epstein e alla loro messa in pratica, ci rendiamo conto che il regista francese ha passato molto tempo a riprendere elementi vivi e fluidi come l’acqua (Finisterrae) e il fuoco (Etna). Credete che queste teorie possano essere ancora applicabili, che la pellicola in qualche modo possa restituire in maniera più completa rispetto alle altre forme di espressione artistica gli elementi naturali?
Valentina: La gamma dinamica della pellicola ti dà la possibilità di vedere luce e ombre che il digitale, in un certo senso, appiattisce: penso che il discorso di Epstein sia abbastanza attuale, ovviamente da prendere in considerazione con le dovute proporzioni. Questa domanda mi fa pensare al film Il Pianeta azzurro di Franco Piavoli (1982); si tratta un documentario che descrive i cicli della natura, ripresi e registrati in circa 30.000 metri di pellicola. Quello che restituisce il regista attraverso la macchina da presa e il sonoro potrebbe avere lo stesso effetto con una macchina digitale? Credo proprio di no. Diciamo che su questa questione ho un po’ di difficoltà ad essere obiettiva, poiché mi occupo di ricerca di archivio di materiali audiovisivi principalmente per documentari. Sono abbastanza “schierata” sul fronte analogico!
Noemi: Il valore antropologico e sociale che il recupero di queste memorie comporta è inoltre rafforzato dal fatto che esse costituiscono una traccia, una prova inconfutabile di ciò che si è vissuto. Questo transfert, questa vera e propria estrazione a vivo di frammenti di realtà ci permette di ribadire l’analogia esistente tra pelle e pellicola: Il film allora, nella sua accezione più letterale, diviene il supporto per eccellenza su cui si condensano attimi del reale. E non è per nulla casuale che nel linguaggio fotografico il concetto di densità sia direttamente proporzionale alla quantità di luce impressa sull’emulsione. Oltre ad avere una natura del tutto simile a quella dei sogni, queste immagini posseggono anche una loro consistenza dunque, fatta di microscopiche particelle di alogenuri d’argento che, proprio come il nostro corpo, sono sottoposte all’inesorabile scorrere del tempo che ne altera forma e sostanza. Ma se la matericità della pellicola, con tutte le sue problematiche relative all’alterazione nel tempo, da una parte richiede un’attenzione e una cura particolari, d’altra parte ci fornisce una possibilità di manipolazione del reale più immediata sia in fase di ripresa che in fase di sviluppo.
Il ritorno a un formato analogico (che si tratti del cinema o della fotografia poco importa) è un fenomeno recente e sempre più diffuso in ambito artistico. Più che a un diffuso sentimento nostalgico, considerando che si tratta di un atteggiamento dilagante anche tra giovanissimi che non hanno mai avuto a che fare con pellicola, si potrebbe parlare di un certo rifiuto dell’iperrealismo che costantemente ci viene proposto, come se i formati in estrema alta definizione avessero, in qualche modo, stancato il pubblico. A cosa pensate sia dovuto questo ritorno e questa fascinazione per l’analogico, a discapito del digitale?
Noemi: Questa particolare versatilità del materiale pellicolare che si esprime nel suo rapporto del tutto privilegiato capace di instaurare con il reale, è alla base del grande ritorno della pellicola in un’epoca caratterizzata dalla transizione digitale. Il passaggio al digitale diviene fondamentale nel processo di condivisione degli archivi. Una delle ragioni per cui è nato il nostro archivio deriva proprio dal desiderio di rendere accessibili questi frammenti di memoria collettiva, materia viva in continuo divenire, che si arricchisce di contributi e significati sempre nuovi.
Valentina: Il ritorno all’analogico credo sia un fenomeno parallelo e che va di pari passo all’incremento dei VFX, degli effetti speciali, delle ultime innovazioni in ambito di intelligenza artificiale, etc… Ci sono molteplici fattori che hanno promosso la diffusione di «fenomeno analogico» e la “riscoperta” degli archivi audiovisivi nell’industria culturale è sicuramente uno di quelli. Un altro fattore potrebbe essere riscontrato nel “successo” di film girati in pellicola e che utilizzano l’archivio con espliciti intenti narrativi, come può essere il caso degli home movies. A titolo d’esempio, per citare uno dei più noti case studies in questo ambito, si fa riferimento spesso a Martin Eden (2018) di Pietro Marcello del 2019. In linea di massima credo però che con la pellicola ci sia anche una riscoperta del supporto cinematografico a 360° gradi, soprattutto pensiamo al fenomeno e al procedimento che comporta girare filmati in Super8, spesso digitalizzati in casa dai cineamatori stessi.
Così come noi abbiamo dato vita a un magazine indipendente, anche voi avete avviato un archivio. Facciamo parte di una generazione che, a causa di diversi fattori, ha perso fiducia nel mondo delle istituzioni e fatica a mostrare di essere capace di fare qualcosa in un ambito ancora molto “vecchio”. Ritienete che quello di sfiducia e diffidenza sia un sentimento diffuso? Quando letteralmente magazzini di Cinecittà bruciano sotto l’indifferenza di tutti, quale può essere la nostra azione concreta (e non) per preservare e valorizzare un patrimonio audiovisivo?
Valentina: Ehm… diciamo che sono una grande sostenitrice dei progetti che vengono dal basso! Purtroppo il nostro paese non vive un buon momento per quanto riguarda i finanziamenti pubblici per progetti culturali o artistici in senso ampio: stiamo assistendo ad una serie di tagli alla cultura che avranno dei riscontri soprattutto sui lavoratori del settore culturale e dello spettacolo, causando perdite di posti di lavoro e nuovi asset che porteranno ad un appiattimento culturale già in corso. L’episodio occorso a giugno 2024, ovvero l’incendio presso la Cineteca Nazionale di Roma e il successivo silenzio delle istituzioni, personalmente mi ha destato un po’ di imbarazzo e scetticismo, soprattutto se consideriamo che se ne è parlato solo grazie ad una inchiesta parlamentare indetta da Marco Grimaldi. Per concludere, nel 1947 Luigi Comencini salvò alcune pellicole dal macero e, successivamente, da questo fondo è nata la Cineteca di Milano: forse dovremmo prendere esempio da questi episodi, per cercare di proporre delle alternative culturali.
Non abbiamo bisogno di altri mondi. Abbiamo bisogno di uno specchio. Dottor Snaut, Soljaris, 1972.
Archivio Alpaca, come questo magazine, come qualsiasi altro progetto dal basso, è una realtà indipendente. Potete visitare le digitalizzazioni sulla pagina Instagram del progetto, @archivealpaca.