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di giulia

La 76esima edizione del Festival del Cinema di Cannes è ormai giunta al termine, conquistandosi il primato di rassegna cinematografica più caotica a cui abbia mai partecipato. La mia breve permanenza non mi ha permesso di vedere tutti i film che avrei voluto (essendomi persa titoli come Perfect Days di Wim Wenders e La Chimera Alice Rohrwacher), ma, nonostante questo, sono riuscita a vedere la mia buona dose di film. Non menzionerò a questo giro Il Sol Dell’Avvenire nonostante la grande emozione di vederlo in sala con Nanni, perché tante belle parole sono state già scritte al riguardo. Cercherò quindi di raccontarvi qualcosa di nuovo su un paio di film che — positivamente o negativamente — hanno attirato la mia attenzione.

“Fallen Leaves” di Aki Kaurismäki

Cannes Film Festival
Alma Pöysti e Jussi Vatanen in “Fallen Leaves” (Credits: Cannes Film Festival)

Magari fossero tutte così le romcom di oggi. Va bene, forse definire questo film romcom è un’azzardo, tuttavia Fallen Leaves riesce ad essere romantico, divertente e sincero in un modo che molti film dichiaratamente “d’amore” riescono solo a sognarsi. Il protagonista maschile, Holappa (Jussi Vatanen), che capiremo presto avere un rapporto poco sano con l’alcool, è invitato dal suo unico amico Huotari (Janne Hyytiäinen) ad andare al karaoke del venerdì sera. “Gli uomini duri non cantano”, risponde impassibile, con la poca enfasi che caratterizza tutti i personaggi di questa storia. Andando avanti nella storia si scopre però che questo “uomo duro” spera nell’amore, rifiutandosi di arrendersi quando un numero di telefono smarrito e una serie di altri ostacoli imprevedibili lo tengono lontano da una donna che conosce a malapena.

Questa donna, Ansa (Alma Pöysti), lavora in un supermercato con un contratto che rasenta lo sfruttamento, odiando il fatto che parte dei suoi compiti consista nel buttare via cibo perfettamente commestibile alla fine della giornata (risentimento che la porterà al licenziamento, dopo essere stata sorpresa a fine giornata a dare via un panino scaduto a un presunto senzatetto). I due hanno un appuntamento di grande successo al cinema, guardano e commentano insieme The Dead Don’t Die di Jim Jarmusch (a mio avviso, scena migliore del film). Una successiva serie di terribili disavventure, però, fa pensare che la loro relazione potrebbe essere destinata a fallire ancora prima di iniziare. Tuttavia, in questi 81 minuti, Aki Kaurismäki offre un emozionante promemoria: per quanto sia oscuro e distrutto il mondo oggi, c’è ancora calore e felicità da trovare — sopratutto quando puoi permetterti di prendere del tempo per te e andare al cinema, così da evadere un po’. Un’ode ben pensata alle piccole cose della vita, che possono essere facilmente perse di vista, Fallen Leaves può essere dotato dello spirito di una commedia malinconica, ma la sua forza sta nella nostra capacità di trovare la luce anche nell’oscurità. 

“Club Zero” di Jessica Hausner

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“Club Zero” di Jessica Hausner (Credits: Cannes Film Festival).

Club Zero racconta la storia di una nuova insegnante in un collegio inglese di nome Ms. Novak (Mia Wasikowska), famosa esperta di “conscious eating” — pratica che non conoscevo bene, ma che brevemente consiste in un modo di mangiare responsabile poiché si basa sul mantenimento della connessione tra corpo e mente durante i pasti, così che l’atto del mangiare diventi un risveglio dei sensi e non più un gesto automatico — le cui lezioni nella scuola dovrebbero consistere nell’insegnare agli alunni a mangiare responsabilmente e in modo salutare, ma si convertono ben presto in riti di culto per convincere i suoi studenti che il cibo fa a loro davvero male. Tutto il cibo, nessuna esclusione. Ms. Novak fa facilmente leva sulle numerose insicurezze di questo gruppo eclettico di giovani ragazzi, ancora in una fase della vita dove devono scoprire se stessi. Lei riuscirà a convincergli che milioni di persone nel mondo stanno piano piano scoprendo i benefici della pratica dello zero food (da qui il titolo del film), motivandoli a tenere nascosto il tutto, soprattutto ai loro genitori, usando la scusa che la società tradizionale non è pronta per quel tipo di verità.

Date le premesse, lo spettatore inizia a sperare di star guardando un film di forte critica sociale, con un intento ben preciso e un messaggio in qualche modo pronto, per ritrovarsi invece con una storia annullata dalla sua stessa incapacità di distinguere la buona fede dalla cattiva. L’idea originale si snoda nei primi atti, per lasciare poi spazio ad una narrazione piatta che non regala niente allo spettatore se non piccoli momenti di, a mio avviso, esagerata provocazione (non entro nei dettagli, ma la presenza del trigger warning all’inizio del film diventa necessaria). Jessica Hausner è chiaramente critica nei confronti del coinvolgimento che genitori impegnati prendono nella vita dei loro figli, ma si perde nella descrizione dei disturbi alimentari di quest’ultimi — forse con l’intento di trasformare l’esagerazione in satira, ma non riuscendo ad essere affatto divertente, rendendo i personaggi degli studenti poco delineati all’infuori delle loro insicurezze. Subito dopo il finale, anch’esso più piatto di quanto avrei sperato, qualcosa mi ha fatto pensare a Favolacce dei fratelli D’Innocenzo. Non mi ritengo una fan della coppia di registi, tuttavia il loro film di qualche anno fa, toccando in simile maniera certi aspetti della vita di giovani ragazzi presi dall’intento di farsi notare e capire dal mondo degli adulti intorno a loro, è riuscito ad avere su di me un impatto infinitamente maggiore, testimoniato dal fatto che tutt’oggi in testa ogni tanto mi risuona ancora Passacaglia della vita, canzone dei titoli di coda, mentre temo che del film della Hausner, nel futuro, mi ricorderò ben poco. 

“May December” di Todd Haynes

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Natalie Portman e Julianne Moore in “May December” di Todd Haynes (Credits: Cannes Film Festival).

May December vede Julianne Moore tornare a lavorare con Todd Haynes al fianco di Natalie Portman per la realizzazione di una storia che, anche se non dichiaratamente, prende spunto dalla vicenda di Mary Kay Letourneau, un’insegnante dello Stato di Washington che negli anni ’90 è andata in prigione dopo una relazione con un ragazzo della sua prima media, dando vita a uno scandalo che finì su tutti i tabloid. Moore interpreta qui per l’appunto Gracie Atherton-Yoo, un’ex insegnante di scuola che è diventata una figura famosa nel 1992 quando ha lasciato il suo ex marito per uno dei suoi studenti di 13 anni. Ora è il 2015, la situazione si è in qualche modo normalizzata, e Gracie e Joe (Charles Melton) stanno insieme da abbastanza tempo che i loro figli più piccoli stanno per diplomarsi. Tutto è in regola, una famiglia felice inserita nel proprio quartiere, ben vista da amici e vicini, nessun drama. O così sembra. Mai fidarsi delle apparenze, e mai dare per scontato che il passato non sia sempre alle tue spalle pronto ad attaccare di nuovo. In tutto questo, nonostante il suo disprezzo per il mondo dei media e delle celebrità, Gracie accoglie nella sua casa l’attrice Elizabeth Berry (Portman), poiché questa è stata scelta per interpretarla in un prossimo film indipendente sullo scandalo.

L’interesse nello “studio” di Elizabeth per entrare nei meccanismi della famiglia cresce sempre di più, trasformandosi in una forma di ossessione. Non sono pochi i riferimenti nel film a quanto sottile possa essere a volte la linea di separazione tra un attore e la sua parte. Cosa è vero e cosa no? L’amore tra Gracie e Joe, il rapporto di lei con i figli avuti dal primo marito, il calore dei suoi vicini, l’interesse di Elizabeth per l’intera situazione, cosa di tutto questo è genuino e cosa invece è solo una maschera? Nessuno in questo film sembra capace di capire i propri sentimenti, figuriamoci di esprimerli. Melton regala un’ottima performance nei panni di un giovane troppo adulto per essere ancora giovane, ma allo stesso tempo di un adulto che non è del tutto cresciuto. La critica ha trovato insolita la riuscita del personaggio di Joe data la scelta de “l’attore di Riverdale”, come se ogni progetto di ogni attore debba sempre essere di alto livello, e un ragazzo neo-trentenne debba avere una carriera già scritta e fissata per colpa di un singolo ruolo più sfortunato. Sarebbe molto giusto aspettarsi che un film su una donna che ha violentato un bambino e la resa dei conti della sua futura famiglia sia oscuro e pesante, tuttavia May December è più leggero del previsto, riuscendo in parte anche ade essere divertente. Haynes non dirige accuse velate, è piuttosto un invito a riflettere su ciò che probabilmente non ci era mai venuto in mente, a quello che — nel bene o nel male — sta dietro di noi.

“Rapito” di Marco Bellocchio

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“Rapito” di Marco Bellocchio (Credits: Cannes Film Festival).

Estate 1858, nel quartiere ebraico di Bologna, i soldati del Papa Pio IX irrompono nella casa della famiglia Mortara. Per ordine del cardinale sono venuti a prendere Edgardo, il loro figlio di sei anni (interpretato prima da Enea Sala, poi da Leonardo Maltese più avanti nella storia). Il bambino era stato segretamente battezzato dalla sua balia da neonato — poiché sembrava gravemente malato e temeva che potesse quindi finire nel limbo — e la legge papale è insindacabile. I genitori protestano con veemenza, ma possono solo ottenere una sospensione dell’esecuzione di 24 ore dal Santo Inquisitore Felletti (Fabrizio Gifuni), che, in qualità di rappresentante locale del Papa nello Stato Pontificio, esercita un potere quasi illimitato sui suoi sudditi bolognesi. Nonostante gli sforzi disperati, Edgardo è portato via a Roma e, ampiamente sottoposto al lavaggio del cervello, cresce fino a diventare un prete, un soldato della chiesa e nientedimeno che il favorito del Papa.

Quel senso di spettacolarità pervade l’intero film, non solo i grandiosi interni e i rituali delle funzioni religiose. Anche nell’appartamento dei Mortara, il regista conferisce a ogni singola inquadratura un’illuminazione che la fa quasi sembrare un quadro del periodo stesso. Quello che sembra affascinare di più Marco Bellocchio della narrazione non sono tanto i personaggi, che risultano a tratti stereotipati (siano essi ebrei o cattolici), ma la storia di un’epoca in cui il Papa “Rapitore” iniziò a perdere il potere di fronte al neonato Regno d’Italia. A tratti un po’ troppo spezzato, anche se tecnicamente impeccabile nella sua attenzione ai minimi dettagli — accompagnato dalla colonna sonora di Fabio Massimo Capogrosso, che ha certamente aumentato il mio apprezzamento per l’intero film — Bellocchio ci mostra una brutale convulsione di tirannia, potere e fanatismo, confermando ancora una volta il mio ateismo. Ma se per caso l’intento era quello di mostrarci qualcosa di più oltre a questo, una qualsiasi risonanza attuale o anche un qualsiasi commento socio-politico più ampio sul tempo in cui un Papa poteva immaginarsi un re, purtroppo io questo messaggio non l’ho percepito.

Giulia

Nouvelle Vague, arti visive e ramen istantaneo. Non mi piace parlare di me, ma mi piace parlare di film.

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