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recensione a cura di virginia maciel da rocha

Secondo Quentin Dupieux, l’intelligenza artificiale non ci ruberà il lavoro. Ma del resto, non stiamo mica andando in guerra o siamo mica qui a salvare vite facendo e guardando film. (Vero?)

Le deuxième acte è l’ultima fatica cinematografica diretta da Quentin Dupieux. Presentato come film d’apertura durante la scorsa edizione del Festival di Cannes, il film non è mai arrivato in Italia e, sia durante il festival, sia nel resto della distribuzione che ha ricevuto (grazie mamma MUBI), non è stato accolto con troppo clamore. C’è chi si è detto deluso dalla prova del regista, che già aveva affrontato gli stessi argomenti di cinema e meta-cinema in Yannick (2023) e chi, invece, ha etichettato il regista francese definitivamente come «has been», per usare le parole di Leonardo DiCaprio in un film diretto dall’omonimo di Dupieux. Certo, la riflessione del rapporto tra attore e cinema, tra attore e finzione, tra tutto questo e lo spettatore, avrà potuto raggiungere un picco di elaborazione più alta nel precedente lungometraggio, ma in quest’ultimo, tra i personaggi protagonisti, compare Louis Garrel – e ha già vinto così.

Le deuxième acte
«Le deuxième acte» di Quentin Dupieux (Credits: Unifrance)

Simpatie a parte, Le deuxième acte si configura come un lungo collage di piani sequenza, dove in maniera altalenante e ripetitiva, vengono affrontati alcuni dei tempi che attanagliano il mestiere dell’attore o, più in generale, del cinema. Guillame, interpretato da Vincent Lindon, attore disilluso che dichiara la bancarotta e il fallimento fino a che non gli arriva la proposta di lavorare con Paul Thomas Anderson, a un certo punto evidenzia come, alla fine, a nessuno importi davvero dello stardom e di tutto il sistema attoriale. A nessuno, ancora più nel dettaglio, importa del cinema: sovrastruttura dopo sovrastruttura, questa grande macchina che tanto smuove e che tanto è impegnativo muovere, ha finito per prendere in giro lo spettatore, nascondendogli la verità più profonda (e spaventosa), che dietro a tutto questo si celi il niente. A fare da contraltare a questa drammatica e nichilista prospettiva sul mondo delle arti interviene Florence (Léa Seydoux), che una certa dose di ingenuità che si accompagna – forse in maniera troppo paternalistica – alle nuove generazioni, ricorda come anche i musicisti del Titanic abbiano suonato fino alla fine, prima di annegare collettivamente. L’arte è, forse, inutile di per sé; non se la si guarda, però, attraverso le lenti della collettività e del fantomatico bene superiore: allora diventa antidoto alla monotonia e al logorio della vita moderna – come non manca di ricordare uno slogan che è stato ripreso e reinterpretato all’incirca una settantina di volte negli ultimi mesi (da più o meno tutti gli uffici di comunicazione della Penisola).

Le deuxième acte
«Le deuxième acte» di Quentin Dupieux (Credits: Unifrance)

Completano il quartetto dei protagonisti il disinvolto David (Louis Garrel) e Willy (Raphaël Quenard). Dei due, il primo è l’esempio dell’attore egoriferito e narcisista, che guarda solo al suo ruolo e si costruisce intorno un perbenismo di facciata – quando il comprimario Willy inizia a dilungarsi su commenti omobitransfobici e abiliti teme, infatti, di essere «cancellato»: non è, fino in fondo, convinto che ci sia del torto in quello che il collega dice, pur definendosi bisessuale. Willy, invece, è un attore molto più semplice, alle prime armi e né ancora sembra essere entrato nel pieno del cinico meccanismo dello stardom, né ha intenzione di adeguarsi, rifiutando strenuamente di autocensurarsi, nonostante i colleghi glielo facciano ripetutamente notare.

«Le deuxième acte» di Quentin Dupieux (Credits: Unifrance)

Il film scorre su due, tre quattro, potenziali infiniti binari paralleli, dove una narrazione racchiude l’altra come nel funzionamento delle matrioske. I lunghissimi dialoghi e dibattiti che scaturiscono tra i personaggi portano lo spettatore a chiedersi sul ruolo e sul funzionamento del cinema oggi. Spesso, è vero, tutti questi concetti e nozioni vengono letteralmente imboccati a chi guarda il film, ma comunque Dupieux riesce a mantenere viva la sua carica ironica e (a volte) dissacrante, anche grazie a un – sì, lo diremo – cast stellare. Ovviamente, se non si è Linklater, può risultare un po’ un azzardo scaricare il peso dell’intero film sul reparto camera (ottimi piani sequenza, complimenti) e sulla componente recitata, ma la breve durata del film (grazie a Dio, un film che non superi le due ore e dieci di durata! Un sogno) e la nonchalance con cui gli attori si portano a casa le scene rende tutto più piacevole.

Le deuxième acte
«Le deuxième acte» di Quentin Dupieux (Credits: Unifrance)

Una delle componenti meglio riuscite, forse, fra tutte le linee di dibattito che si aprono e si chiudono come una partita a tennis, rimbalzando tra i personaggi, poi tra lo spettatore e lo schermo, per poi fare ritorno ai protagonisti del film, è il commento che viene fatto all’intelligenza artificiale. In un ambito, come quello del cinema – ma si potrebbe parlare in senso lato di tutto il mondo dell’arte – in cui si fatica ancora a capirne il funzionamento, questo strumento che sembra essere piombato dal niente sulla Terra per annientarci uno a uno, alla fine, non è altro che un computer, come viene rappresentato sullo schermo. Solo il recente polverone sollevato in occasione della nomination agli Academy Awards di The Brutalist (2024) potrebbe essere indicativo del livello di ignoranza che ancora dilaga riguardo l’intelligenza artificiale. Da una minima considerazione si passa a dichiarare, in breve tempo, che la realizzazione di un intero film è stata affidata a una macchina, a un robot, a un apparecchio freddo che ha “rubato” il lavoro a un essere senziente. E così decide di fare Quentin Dupieux: affidando la regia di questo film-nel-film all’intelligenza artificiale, prova a immaginarne le conseguenze sul piano lavorativo e interpersonale. Il risultato? Homo homini lupus – ma questo ce lo aveva già detto Plauto in tempi non sospetti.

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