di virginia
Margini racconta una storia di provincia. O meglio, racconta la provincia toscana, quella irraggiungibile; quella – a detta di uno dei personaggi protagonisti – che rimane sempre «a due ore da tutto: a due ore da Firenze, a due ore da Roma». Il lungometraggio di Niccolò Falsetti segue le vicende di Edoardo (Emanuele Linfatti), Iacopo (Matteo Creatini) e Michele (Francesco Turbanti), tre giovani musicisti che compongono una band punk. Siamo nel 2008: tra un Nokia 1100 e il cattolicesimo dilagante, nessuno sembra capire che questo genere musicale è ancora vivo, nonostante gli innumerevoli sforzi da parte dei tre protagonisti. Anche quando una grande occasione si presenta loro e cioè quella di ospitare il concerto di una famosa band statunitense, comunque nessuna delle istituzioni o delle persone che, di fatto, possono concedere uno spazio per un evento del genere, sembra capirne la portata: ci sono sempre altre priorità e tradizioni da rispettare, prima di lasciare spazio a un’iniziativa dal basso e organizzata da persone giovani.
La storia si incentra, in particolare, sul percorso pieno di ostacoli che i tre intraprendono per cercare un posto dove poter ospitare il concerto. Le autorità non si sforzano neanche di comprendere quali siano gli intenti dei tre ragazzi: in una sequenza che ha del tragicomico li vediamo chiedere direttamente al comune di Grosseto (in un ufficio che pullula di simboli di quella Maremma stereotipata e turistica) uno spazio pubblico dove poter allestire il concerto ma il comune, come non manca di sottolineare la funzionaria a cui si rivolgono, ha ben altre priorità, dato che «al momento è impegnato nella ricostruzione storica dell’assedio di Ludovico il Bavaro». L’assurdità di questa risposta evidenzia molto bene la lontananza delle generazioni precedenti verso le esigenze dei giovani di oggi: si preferisce dare la priorità e portare avanti rievocazioni medievali (che però, di storico non hanno niente e il più delle volte consistono nella realizzazione di un evento kitsch e posticcio) piuttosto che offrire un’offerta culturale più ampia.
Non sono, però, solo le istituzioni a impedire la realizzazione di questo concerto: anche la generazione dei genitori dei ragazzi, se da una parte lo vede come un bel passatempo che i protagonisti si sono trovati, dall’altra diventa occasione per ribadire che la musica non è un vero lavoro. Nel continuare questa ricerca i tre provano a chiedere al compagno della madre di Edoardo, il signor Melis (Nicola Rignanese), se può concedergli il locale di cui è proprietario, la sala Eden, per una serata. Questa sala assume presto i connotati più di una capsula del tempo che di un locale vero e proprio: rimasta ferma agli anni Ottanta – come, del resto, il modo di vedere il mondo del suo stesso proprietario – non ha subito alcuna modernizzazione o miglioria nel corso degli anni. Si tratta di una sala frequentata da quelle stesse persone che, pur vivendo a distanza di trent’anni da quel periodo, non possono fare a meno di rievocarlo: bloccati in una bolla di nostalgia, composta perlopiù da musica pop discutibile, invece di migliorare il presente, si limitano a ricordare il passato, in quella che assomiglia più a una zona di comfort che alla vita vera e propria.
La sala Eden diventa, quindi, specchio di un atteggiamento che la maggior parte degli abitanti di questa provincia sembra ottenere. O meglio, ne diventa il simbolo: tenere in vita tradizioni storiche, rituali che solo una parte di popolazione – non a caso quella più in là con gli anni – ha piacere a vedere, senza arrivare a un compromesso con la componente più giovane che abita il paese non fa altro che chiudere ancora di più in sé stessa questa provincia, la cui offerta culturale inevitabilmente andrà a scomparire. Margini pone davanti allo spettatore le più antiche questioni amletiche legate alla provincia: è meglio andarsene dove c’è, effettivamente, un’offerta culturale, oppure rimanere e provare a crearne una dal niente?
Dei tre protagonisti, chi decide di andarsene è Iacopo. E non è un caso che sia proprio lui a farlo: dire che stia scappando conferisce una connotazione negativa alle sue azioni, ma è anche quello che Edoardo e Michele sentono che sta facendo, come se in un certo senso avesse deciso di tradire prima loro, poi il progetto di band che avevano montato, infine il luogo in cui sono nati e cresciuti. Iacopo è, però, anche il personaggio che si trova in una condizione di benessere economico superiore rispetto agli altri: non mancano sequenze che riprendono l’enorme casa vuota del ragazzo, che decide di andarsene per perseguire i suoi studi – e una possibile carriera – all’interno dell’orchestra in cui suona il violoncello, come a rimarcare in un cerro senso che dalla provincia se ne va anche chi, effettivamente, ne ha le facoltà economiche.
In un’ora e mezza, quindi, Margini ha il pregio di raccontare la provincia italiana per quella che veramente è: non quella che i turisti sognano di visitare, immaginandosi di vederci «l’Italia vera» e nemmeno quel luogo romanticizzato da un certo filone di musica indipendente italiana (forse, Vasco Brondi, le sue luci della centrale elettrica e le storie d’amore e di merda della provincia hanno fatto più danni del previsto da questo punto di vista). In provincia è difficile affermarsi ed è difficile andarsene; è una terra di nessuno dove, però, nessuno sembra avere potere e facoltà di cambiare le cose. I due protagonisti rimasti congedano lo spettatore sulle note di una famosa canzone pop degli anni Settanta, ricordando che «se bruciasse la città, da te io correrei», in una chiusa che ha dell’iconico (ma, del resto, tutte le canzoni dell’epoca hanno già assunto lo status di icona) ma anche dell’ottimismo un po’ anacronistico: forse, facendo rete e unendosi, qualcosa di buono si può combinare anche se gli ostacoli per realizzarlo non sono pochi.