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di pavel

In questi giorni febbrili è uscito su Netflix Blonde, biopic romanzato sulla figura di Marilyn Monroe. Anzi, piuttosto, narrazione romanzata sulla creazione della figura di Marilyn. Firmato da Andrew Dominik (Killing Them SoftlyThe Assassination of Jesse James by the Coward Robert Ford), la pellicola è un adattamento dell’omonimo romanzo di J. C. Oates, un resoconto ‘distillato’ in forma narrativa della vita di Norma Jean, l’anima che si nasconde dietro l’immagine della bionda più sexy della storia. Il titolo, a mio avviso, è emblematico, e questo perché la narrazione non è l’ennesima sbirciatina voyeuristica ai retroscena di una diva di Hollywood: piuttosto si configura come la passione cristica di una martire venduta alla costruzione di un immaginario così potente, così tuttora vivo e fecondo, la Blonde Ambition.

“Blonde” di Andrew Dominik (Credits: Netflix)

Il film, che salta la distribuzione nelle sale ed esce direttamente sulla piattaforma streaming, ha ricevuto critiche disaggregate, contrastanti, per la maggior parte fredde. La lunga gestazione post-produzione, influenzata da audience screenings non particolarmente strabilianti, ha richiesto taglia e cuci, riprese e registrazioni aggiuntive, e dunque a due anni dall’inizio della produzione, è arrivato negli schermi delle nostre case per la bellezza di quasi tre ore di montato. Molti di voi che lo hanno già visto lo avranno giudicato lungo, lento, ed è comprensibile. Mi piace fantasticare su quello che i film potrebbero essere, se non ci fosse lo zampino di produttori affamati come sicari assunti da majors che manco la Nato, ma vabbè. Io il film, così come l’ho visto, l’ho adorato. È ovviamente Hollywood, ma stranamente il film meno hollywoodiano sulla piattaforma Netflix che potrete vedere.

“Blonde” di Andrew Dominik (Credits: Netflix)

Di omaggi a Marilyn il cinema di questi ultimi tempi ce ne ha regalati diversi, molti dei quali un po’ sottotono, ma altri nemmeno malaccio (vedasi My Week With Marilyn con un’eccelsa Michelle Williams). Blonde è comunque un film imperfetto, ma l’errore non è nella durata. Non aspettatevi colpi di scena: l’esperienza è un po’ simile alla visione di quegli aerei dirottati verso le Torri Gemelle, in quel fatidico 11 settembre. Non ci sono lieti fine: Marilyn muore, così come succede nella realtà. Non esistono ravvedimenti, non c’è pace né gioia, se non in alcuni momenti che premettono a deliri e psicosi. E forse questo è uno dei punti di forza del film. Blonde, targato Netflix, rimane sul commerciale. Che sia il montaggio finale o l’effettiva volontà del regista, questo forse rimarrà il patto tacito di una trattativa riservata di cui non ci è permesso sapere i dettagli.

“Blonde” di Andrew Dominik (Credits: Netflix)

La storia comincia senza risparmiare crudeltà di alcun tipo: Norma Jean è presentata come un’orfana, figlia di una donna psicopatica abbandonata da un uomo di cui ci è dato avere solo l’immagine di una fotografia incorniciata e appesa sul letto, come fosse un Santo. I discepoli della scuola freudiano-junghiana ne saranno deliziati. E forse anche i romantici alla Nabokov potranno trarre piacere nell’assaporare le coordinate di un essere, carne e anima, mosso alla fama solo dalla propria fame, la fame di non aver avuto una figura paterna, il vuoto lasciato da un materno violento e terrificante, e da una serie infinita di tentativi, fallimentari, di cooptazione. Ad un certo punto della pellicola, Norma Jean, ormai Marilyn, nel bel mezzo di un’audizione, si chiede dov’è che finisce il sogno e dov’è che inizia la pazzia. Ecco il punto, a mio parere, più suggestivo dell’esperienza, della aggressione iconoclasta di una narrazione, una narrazione che non vuole celebrare un mito, piuttosto ha bisogno di condannare un ambiente in cui questo mito è stato fecondato, cresciuto e poi, infine, ammazzato.

Blonde di Andrew Dominik
“Blonde” di Andrew Dominik (Credits: Netflix)

Le numerose tecniche cinematografiche aiutano a confondere ulteriormente i confini tra sogno e realtà, e siamo trasportati in questa discesa all’inferno che non risparmia, che non promette pause, nulla in cambio. Il formato dell’immagine cambia, così come anche la fotografia e i colori, e dunque se in formato 4:3 sono tagliate le fedeli riproduzioni di scene tratte da film come Someone Like It Hot Gentlemen Prefer Blondes, nello stesso formato, magari anche in bianco in nero, è inquadrata una Norma Jean nella sua più pura intimità, dai ménage à trois con il figlio di Charlie Chaplin alle metempsicosi di fronte alle tolette dei camerini. “Isn’t all love based on delusion?” Marilyn si chiede. E forse questo è un punto importante che merita di essere esteso ad un paradigma di realtà più ampio. La narrazione di Blonde copre un arco molto ampio della vita dell’icona, dalla sua infanzia alla sua morte. Hollywood è una fabbrica inarrestabile di canoni visivi ai quali non possiamo fare altro che piegarci ed emulare, per sentirci meno soli, per trovarci più carini, per sembrare più normali.

Blonde di Andrew Dominik
“Blonde” di Andrew Dominik (Credits: Netflix)

Norma Jean, interpretata da una Ana De Armas sempre sull’orlo di una crisi di nervi (l’espressione almodovariana qui cade a pennello), si presta come la perfetta vittima sacrificale di un’operazione puramente economica, ma che col tempo ha acquisito la fama di mito. Non sono infatti, tutte le cose che restano, destinate a diventare mito? Oltre a giocare col complesso di Elettra, la narrazione distillata di Dominik gioca sul desiderio, strozzato e represso, di maternità della donna, una volontà purtroppo subordinata ai contratti con le case di produzione e ad un ambiente che è il contrario di ciò che è il materno. È un mondo immondo, è freddo, è inospitale. Norma Jean è una martire incapace di codificare la realtà attorno a sé. Questo difetto non è spiegato da una ostentata superficialità o da una comprovata stoltezza. Norma Jean ama e senza condizioni, e di questo amore se ne servono tutti, fino ad ucciderla. In questa prospettiva mi sembra molto originale constatare che, dalla posizione che assume la narrazione, non molto sia cambiato.

Blonde di Andrew Dominik
“Blonde” di Andrew Dominik (Credits: Netflix)

Marilyn si configura come sintesi di una collettività di anime perse, di reietti, orfani che colmano il loro vuoto d’amore con palliativi che si rivelano via via sempre insufficienti. Che sia una dipendenza da antidepressivi o una carriera da Hollywood, l’asticella è sempre più in alto, in una progressione che sembra simulare la parabola del martire cristiano. Fino al voltastomaco. Fino alla violenza domestica. Fino all’estremo atto. Lo stupro da parte della nazione. La scena con Kennedy la trovo simbolica, se guardata da questa prospettiva. È irreale scontrarsi con un business che investe su di te in quanto carne da macello, in quanto immagine da consumare fino alla filigrana, frutto succoso da spolpare fino al midollo, corpo da mangiare fino alla consunzione. Tanto irreale quanto realizzare di essere stati sessualmente aggrediti dal presidente degli Stati Uniti.

Blonde di Andrew Dominik
“Blonde” di Andrew Dominik (Credits: Netflix)

Che ciò volesse essere un esplicito rimando a Trump e alla sua vergognosa visione del femminile, intriso di misoginia e violenza ed esteso fino al sangue del proprio sangue? Su una cosa credo di essere d’accordo con Dominik. La politica non è affare da donne. Inventata dagli uomini e promossa dagli uomini per gli uomini, anche ora che tutt’ad un tratto ha deciso di investire anche le donne, per me rimane qualcosa di antifemminista, un coagulo di operazioni scellerate realizzate con sufficienza da persone incapaci, nel più ampio quadro di una crisi dei sistemi che reagisce al crollo ideologico con un abbassamento dell’alfabetizzazione.

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