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di giulia

The Criminals (2020) di Serhat Karaaslan

Lorin Merhart e Deniz Altan in ‘The Criminals (Credit: Ischia Film Festival)

Questo corto di Serhat Karaaslan gira tutto intorno a un concetto di intimità percepita come proibita, colpevole, criminosa. A tarda notte, in una piccola cittadina turca, una giovane coppia di studenti universitari cerca di trovare una stanza d’albergo dove passare la notte insieme, ma sono rifiutati da tutti gli hotel dove si presentano per non avere un certificato di matrimonio. Quando poi finalmente credono di aver trovato il perfetto trucco da usare per sviare alle regole, la situazione sfugge di mano.​ Lo spazio chiuso della stanza d’albergo diventa un punto focale del racconto, spazio che suscita curiosità oltre che immaginazione. Un luogo di intimità, che non si ha diritto di oltrepassare. Tuttavia, l’intero scopo di un regime autoritario — come vedremo chiaramente in The Criminals — è controllare e agire su ogni spazio di libertà individuale, compresa la camera da letto.

Si tratta di un dramma sociale realista, combinato con gli elementi del film thriller e nel suo cuore ha desiderio e la questione dell’intimità. Nazli (Deniz Altan) ed Emre (Lorin Merhart) sono una coppia giovane e moderna, non ci sono ostacoli fra i due, l’unico vero limite sono gli altri, la società in cui tutti sono osservati e controllati. Corrotta è la promessa di intimità solitamente associata ai locali dell’hotel. A partire dai corridoi, fino ad arrivare alle vere e proprie camere, tutto nell’albergo si trasforma in una gabbia video-sorvegliata, a simboleggiare il controllo totale delle libertà civili. L’atmosfera è intensa nel corso di tutti i 23 minuti della durata, il ritmo del film ricorda quello di un horror, che accelera piano piano, lasciandoti ad aspettare l’arrivo dell’apice della tensione. Da notare come viene introdotta gradualmente la figura dell’addetto alla sicurezza dell’albergo: prima sentiamo il telefono della camera squillare più volte, poi arriva il rumore dei passi che si avvicinano e quello delle chiavi che cercano di aprire la stanza. Emre riesce a chiudere il chiavistello ma la guardia appare lo stesso attraverso una fessura della porta appena aperta, mostrando una sorriso minaccioso che ricorda quello di Shining di Stanley Kubrick. Essere una coppia moderna in un ambiente conservatore rende Nazli ed Emre dei veri e propri criminali. Anche i testimoni, una coppia di mezza età alla reception dell’hotel, partecipano a condannarli rimanendo in silenzio davanti alle grida della ragazza.

Arrivati alla scena finale, anche se non vengono mostrati esplicitamente, percepiamo lo stesso che rimangono presenti degli sguardi di condanna intorno a loro. La tensione è scesa ma resta palpabile nei loro occhi un sentimento di colpevolezza, a causa della moralità creata dalla società e il suo controllo sono intorno a noi. Anche se non lo vediamo, lo sappiamo e lo sentiamo.

Richter (2022) di Koloreto Cukali 

Besmir Bitraku in ‘Richter’ (Credit: Ischia Film Festival)

Richter di Koloreto Cukali è una storia basata su eventi reali. Un terribile terremoto colpisce la città di Durazzo il 26 novembre 2019. Centinaia di edifici vengono danneggiati o completamente distrutti. In uno di questi rimangono in vita solo 3 persone, intrappolate sotto le macerie: Armando, Jerina e la sua bambina di 2 anni. Per 40 ore si aggrappano alla vita fino all’arrivo dei soccorsi in una autentica corsa contro il tempo. Riusciranno a sopravvivere?

Lo spettatore viene catapultato in una situazione di incertezza sin dai primi istanti del film. La storia inizia e ci troviamo davanti a un uomo, Armando (Besmir Bitraku), sdraiato nel suo letto, neanche il tempo di inquadrare bene la situazione che ci viene mostrata davanti a noi e il terremoto non perde tempo a diventare subito il protagonista, riportato sulla scena con l’escamotage di una serie di riprese sconnesse e movimentate, che annebbiano la visione e dissolvono nell’incertezza la figura dell’uomo che pochi attimi prima stavamo osservando. La telecamera adesso è di nuovo stabile, riprendendo Armando sotterrato, polveroso e ferito, ma ancora in vita. Cerca affannosamente di spostarsi e muoversi in spazi più ampi, fino a che la sua agitazione non sarà momentaneamente placata dal suono di una voce femminile. Si tratta di una donna che abitava poco sotto di lui, Jerina (voce di Erjona Kakeli), che non vediamo mai ma che diventa una figura fondamentale, dato che la sua presenza — e sopratutto quella della sua bimba di due anni — diventa come un’ancora per Armando, che a questo punto non è più solo e deve resistere anche per loro, per poterle tranquillizzare e incoraggiare ad aspettare i rinforzi.

Le ore passano e noi percepiamo lo scorrere di questo tempo grazie allo smartphone dell’uomo, che lui aveva portato d’istinto con se. Vediamo il suo schermo, i minuti che avanzano, la batteria che si sta scaricando lentamente. Armando riceve una telefonata preoccupata dalla madre, alla quale lui mentirà dicendo che è tutto sotto controllo e che la deve salutare perché lo aspettano a lavoro; il telefono continua a squillare, questa volta è un numero sconosciuto che inizialmente lui deciderà di ignorare ma al quale poi cederà, rispondendo: è una chiamata di servizio da parte della banca che lo esorta a un pagamento. Armando, Jerina e sua figlia sono impotenti all’interno del loro incubo, mentre fuori il mondo va avanti come se niente fosse. Internet dice che i soccorsi stanno arrivando da tutti i paesi vicini ma nel frattempo Armando è sempre più debole, intorno a lui è sempre più buio e più silenzioso, anche la voce della donna è sparita. Quando sentiremo arrivare da fuori campo le parole di un soccorritore lo spettatore tira finalmente un respiro di sollievo, ma la situazione rimane incerta: è tutto vero o si tratta di un sogno ad occhi aperti del nostro protagonista che non si arrende all’idea di essere stato “dimenticato”?

Too Rough (2022) di Sean Lìonadh

Ruaridh Mollica e Joshua Griffin in ‘Too Rough’ (Credits: IMDb)

Too Rough di Sean Lìonadh racconta il tentativo di un adolescente gay, Nick (Ruaridh Mollica), di nascondere al suo ragazzo Charlie (Joshua Griffin) un grande lato di sé. Il film inizia con le immagini dei due ragazzi ad una festa, entrambi bevono più del dovuto e Charlie gli rinfaccia, con tono scherzoso ma non troppo, di non averlo mai portato a dormire a casa sua. Continua a stuzzicarlo chiedendogli se non si sia stancato di stare sempre e solo da lui, nella sua camera, nel suo letto ad usare il suo account Netflix. Preso dall’alcool e sentendosi in difetto davanti ai loro amici, Nick impulsivamente dice a Charlie che quella sera lo avrebbe portato a casa con sé. La mattina seguente, Nick, con i postumi della sbornia, si sveglia accanto al suo ragazzo e, in uno scatto di lucidità, cerca con agitazione di mandarlo via. Ed è così che Charlie inizia a scoprire una versione di Nick della quale non era a conoscenza, conosce il fratello minore, sente le litigate dei genitori arrivare dal retro della porta di camera, comprende i segreti di una famiglia disfunzionale, abusiva e omofoba che sono stati la causa per cui Nick non si era mai, prima di quel momento, veramente aperto con lui.

Con una fotografia inquietante e ravvicinata, il cortometraggio descrive il dilemma di un adolescente gay ed esplora il conflitto interiore tra il suo amore e le sue relazioni, l’amore per suo fratello e la paura dell’opinione del padre, inquadrato all’interno di un contesto di abuso domestico. Affrontare qualcuno può spesso essere difficile e nascondere un segreto per rendere la tua vita un po’ più tranquilla a volte può avere un prezzo. Questo è esattamente ciò che Nick sta vivendo, e gli ostacoli che deve superare per trovare la pace interiore (almeno si spera), sono enormi. L’attenzione ai dettagli e il richiamo alle emozioni dello sceneggiatore e regista — che per un attimo mi hanno fatto credere di star guardando un film di un regista ben radicato nel genere quale Xavier Dolan — rendono Too Rough crudo ma delicato al tempo stesso. Nick vuole solo essere felice, ma coloro che lo circondano, a volte. lo rendono difficile.

Sia sulla carta che nella realtà, Too Rough è molto semplice, ed è una storia, indipendentemente dal tuo background, con la quale dovresti essere in grado di connetterti. I due protagonisti recitano trasmettendo un’emozione genuina, riuscendo a portare alla luce l’oscurità che giace all’interno dei loro personaggi. Il regista fa tutto il possibile per rendere la storia di Nick viscerale e reale, e attraverso le difficoltà e il dolore del film, penso che tutto ciò che Lionadh sperava di trasmettere passi realmente allo spettatore.

The Right Words (2021) di Adrian Moyse Dullin

Yasser Osmani in ‘The Right Words’ (Credit: IMDb)

Kenza (Aya Halal), 15 anni, e il fratello Madhi (Yasser Osmani) di 13, si umiliano regolarmente a vicenda sui social. Un giorno, sul bus, Kenza mette alla prova l’ingenuo e romantico fratellino: lo sfida a dichiararsi a Jada (Sanya Salhi), la ragazza per cui lui ha una cotta e per la quale addirittura scrive frequentemente poesie, nonostante lei non sappia neanche della sua esistenza. Messo sotto pressione dalla sorella, che gli consiglia di non essere sdolcinato e di atteggiarsi a duro, Madhi cerca di avvicinarsi a Jada nel caos della corsa del bus, ma riesce a trovare il coraggio solo quando lei arriva alla sua fermata. Il ragazzo scende per inseguirla mentre Kenza e la sua amica trovano un diversivo per non far ripartire l’autista. E’ così che, davanti agli occhi di tutti, Madhi si dichiara goffamente a Jada, e non appena la ragazza nota di essere ripresa, si atteggia infastidita. Se da lontano ai passeggeri dell’autobus sembra che rifiuti la confessione, in realtà – all’oscuro di tutti i personaggi, ma non all’oscuro degli spettatori – dà appuntamento al ragazzo il giorno seguente.

The Right Words è l’esordio alla regia Adrian Moyse Dullin, che riesce a creare un empatico ritratto della prima adolescenza, cogliendo in soli 14 minuti l’angoscia, l’innocenza, la confusione e i sentimenti contrastanti di quella fase effimera della vita. Viene messa in evidenza la paura di questi giovani ragazzi di diventare emarginati sociali, le imprese che loro portano avanti per mettersi alla prova, per mostrarsi in un determinato modo sui social, conformi a un determinato ideale che la società crea, anche se in realtà nella vita reale agiamo e pensiamo diversamente (come dimostra la scenetta messa in piedi da Jada). La paura di mostrarsi apertamente e con onestà in un periodo come l’adolescenza, quando ancora non si sa bene chi veramente siamo, non appare una novità a nessuno, però questo corto sottolinea come il ruolo svolto dai social contribuisca ad aumentare la pressione all’interno delle relazioni, anche fra coetanei.

North Pole (2021) di Marija Apcevska 

Antonija Belazelkoska in ‘North Pole’ (Credits: Mubi)

Margo (Antonija Belazelkoska) è una ragazza di sedici anni alle prese con le prime relazioni amorose, è fidanzata con Matej (Luka Mitev), ma sin dalla prima scena del film vediamo come lei sia riluttante e poco convinta della situazione, sentimento che notiamo chiaramente quando lui tenta di baciarla in un momento di intimità ma lei si scansa e decide di andarsene. L’atmosfera intorno alla protagonista cambia, si passa da un silenzioso e solitario campo nebbioso all’affollato spogliatoio della sua scuola, dove le altre ragazze parlano spavaldamente dei loro appuntamenti e di cosa fanno nei momenti di intimità con i propri fidanzati. Margo si sente alienata in questo contesto, non sa come rispondere alle domande delle compagne e sembra che neanche riesca a comprenderle a pieno ma, allo stesso tempo, vuole disperatamente essere come loro. Non conosce ancora bene se stessa e arriva a pensare che forse solo perdendo la verginità troverà il suo posto nel mondo, arrivando a comportarsi con Matej in un modo che non la rispecchia.

L’atmosfera del film, girato intelligentemente da Marija Apcevska su pellicola in una tavolozza di colori semplice e molto sensibile, risulta comunque sempre ostile. Vediamo sorridere Margo solo una volta, quando arrabbiata decide di sfogare il suo disagio rimproverando dei bambini che scherzosamente le avevano tirato da un tetto delle mollette per i panni, finendo invece per partecipare anche lei al loro gioco. Però, vediamo che anche questa felicità è labile e la spensieratezza del momento è troppo breve, tanto da farla tornare seria e pensierosa solo pochi attimi dopo. North Pole è un film che parla poco ma allo stesso tempo dice molto, è un ritratto della scoperta adolescenziale e della delicata distanza che separa l’infanzia dal dolore dell’entrare nel mondo degli adulti.

Giulia

Nouvelle Vague, arti visive e ramen istantaneo. Non mi piace parlare di me, ma mi piace parlare di film.

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