a cura di emma marinoni
In vista della proiezione del suo corto alla serata finale di Indocili il 20 maggio, abbiamo discusso con Philip Thompson di televisione, ossessioni e pixel.
Un appartamento a New York, cinque amici e una laughing track di sottofondo: sulla carta, Living Reality sembra una sitcom come tante altre dei primi anni Duemila. Nel soggiorno dove si svolge la maggior parte dell’azione i protagonisti si scambiano aneddoti sulla propria vita di ventenni e battute di scherno – o meglio, tutti tranne Theo, che se ne sta in disparte e sembra sempre dire la cosa sbagliata al momento sbagliato. Theo, interpretato dal regista Philip Thompson, è un glitch all’interno della sitcom, troppo “reale” per il mondo artificiale della televisione. Theo assomiglia di più a noi spettatori: quando ne ha abbastanza dei propri amici, accende il televisore. Tuttavia, sullo schermo trova una realtà pressoché identica alla nostra, in cui non ci sono risate in sottofondo o una narrazione incalzante ma piuttosto spezzoni di vita reale. Con Living Reality Philip Thompson continua la sua esplorazione dei media e del nostro rapporto con loro, già iniziata con il suo corto precedente I’m at home, ambientato in un programma televisivo per bambini a la art attack.

Dato che entrambi i tuoi ultimi corti si trovano nello stesso universo tematico, mi chiedevo da dove venisse l’idea dietro «Living Reality» e se si trattasse di un’ulteriore esplorazione di elementi che hai scoperto girando «I’m at home».
Philip: I’m at home era il mio progetto di tesi ed è stata la cosa più strana che io abbia mai fatto: gli altri film che ho girato durante l’università erano molto più “narrativi” e convenzionali. Quel film è stato la mia prima incursione in un modo di fare cinema più espressivo, più personale e sperimentale. Dopo essermi laureato sono finito a fare una serie di lavori terribili cercando di arrivare a fine mese: quando ho deciso di girare un altro film il ricordo della risposta positiva che aveva ricevuto I’m at home mi ha spinto a voler esplorare di nuovo lo stesso linguaggio. In più, c’è da dire che in generale, io ho due ossessioni: i film mumblecore e le sitcom, quindi ho pensato che, se fossi riuscito a unire queste due cose, probabilmente sarebbe potuto uscire un film interessante. Mi piaceva l’idea di fare un film su qualcuno che vive in una sitcom e che, come noi, è particolarmente influenzato dalle immagini che vede sullo schermo e vuole farne parte. Ho pensato che sarebbe stato divertente se nella realtà del film il nostro mondo fosse quello “desiderato”, presente solo all’interno del televisore, e che a bramarlo fosse un personaggio di una sitcom televisiva, dicendosi “vorrei proprio che la vita fosse come quello che vedo in televisione.

A proposito dell’intrusione mumblecore in «Living Reality», come hai girato ed eventualmente scritto le sequenze di “vita reale” presenti nel film?
Philip: Tutto quello che c’è dentro la TV non è propriamente “reale” o documentaristico. Sono solo una serie di immagini del mio gruppo di amici che vivono a New York: alcuni recitano, altri no. Volevo solamente immortalare le storie dei miei amici e delle persone che conosco il meglio possibile. In sostanza io e i miei amici siamo andati in un parco con solo due videocamere, girando per un’ora immagini di cui poi avrei scelto soltanto trenta secondi. Ogni volta che provavo a scrivere qualcosa per questa sezione del film il risultato finiva per non funzionare: andava molto meglio quando le persone erano sé stesse e quindi più “reali”, senza seguire nessuna sceneggiatura.
Sia la parte “sitcom” che quella “reale” hanno una visione estetica e una texture molto specifica: come hai fatto ad ottenerla?
Philip: Sono ossessionato dalla texture cinematografica, è stata una delle cose che ho realizzato quasi subito quando ho iniziato a fare corti. Amo i film degli anni Settanta, super sgranati e “sporchi”, girati su tutti questi tipi di pellicola diversi. Dall’arrivo del digitale portare un certo tipo di texture nei film è diventato una scelta creativa deliberata. Quando ho girato questo film non mi potevo permettere di girare in pellicola quindi ho cercato di usare vecchie macchine digitali: il fare un film influenzato dalla televisione degli anni Novanta e Duemila sicuramente aiuta a rinforzare questo tipo di scelta creativa. Anche se certe volte le persone usano questo tipo di camera senza un motivo specifico, a me personalmente piace avere una ragione logica per cui il film ha l’aspetto che ha. La parte “sitcom” l’abbiamo girata con delle Canon Excel, delle mini camere DV. La parte reale” è girata con delle Kodak Play Sport, che sono delle macchine pensate per fotografare sottacqua e incredibilmente economiche. Quando fai zoom è tutto pixelato, sgranato e incasinato: è “crunchy e disgusting”, sembra quasi un mosaico. Dopo aver girato abbiamo trasportato l’intero film su VHS e riportato in digitale, in modo da dargli un look finale più coeso.

In questi due progetti tu sei anche l’attore protagonista. Mi chiedevo da dove venga questa scelta, e se hai intenzione di continuare a recitare anche nei tuoi progetti futuri.
Philip: Mi piace ascoltare gli album che hanno come copertina una foto dell’artista: quando ascolto la loro musica vedo la loro faccia e mi sento più connesso a chi ha fatto la musica. Mi piace avere la sensazione di conoscere l’autore quando guardo un film, ascolto qualcosa o leggo qualcosa: mi sembra che le nostre anime si connettano e interagiscano in un modo specifico. Tutto questo per dire che una parte del motivo per cui ho scelto di recitare nei miei film è quello di permettere a chi guarda di avere un contatto più diretto con me. Sia Living Reality che I’m at home, per quanto siano film di finzione, parlano anche di sensazioni reali che ho attraversato e cercato di rendere in un personaggio. Tuttavia, oggi non credo di essere più interessato a recitare nei miei film, penso di aver ormai esorcizzato questa necessità. Forse c’è qualcosa che mi spingerà di nuovo verso la recitazione in futuro, ma non mi definisco un attore – credo che ci siano persone molto più capaci di me in quell’ambito. E’ stata però un’esperienza molto bella, che penso abbia aiutato a rendere i miei film più forti: anche se ci sarebbe potuto essere un attore molto più bravo di me al mio posto, il fatto che invece ci sia io lì dentro aggiunge un livello di personale in più.

Come dici, i tuoi film vengono da un posto incredibilmente personale. Come si è evoluto il tuo rapporto con il medium della televisione mentre giravi e dopo aver girato «Living Reality»?
Philip: Quando ero bambino ero ossessionato dalla televisione: la televisione era il mio mondo. Non avevo molti amici per cui una volta tornato da scuola stavo davanti al televisore dalle quattro del pomeriggio fino alle nove di sera. Durante le superiori ho iniziato a soffrire di depressione, e dopo un po’ ho realizzato che uno dei motivi era che avevo guardato tantissime serie ambientate alle superiori quando ero alle medie, creando un’aspettativa fortissima che però non si è mai realizzata. Amo il cinema e la televisione ma dopo la fine dell’università, l’anno prima di girare Living Reality, ho iniziato a dirmi che va bene anche non guardare ogni singolo film o nuova serie tv che esce e accettare il fatto che, anche se ci fossi riuscito, ciò non mi avrebbe reso più felice di quanto è invece usare quel tempo per curarsi delle proprie relazioni irl. Living reality è un po’ il riflesso di quel processo, di quel momento in cui non facevo altro che guardare TV e fuggire dalla realtà – del mio successivo realizzare che non è un modo di vivere gratificante. Detto ciò, mentre giravamo Living Reality la sera tornavo a casa e spesso mettevo su Seinfeld: il mio direttore della fotografia viveva con me e, dopo una giornata intera passata a girare una sitcom, chiaramente voleva strangolarmi.
Pensi che il tuo lavoro continuerà a interrogare i media e il nostro rapporto con loro anche in futuro?
Philip: Attualmente sto sviluppando un lungo su tematiche simili a quelle dei miei ultimi due corti: ha a che fare con il nostro rapporto con le persone che vediamo sullo schermo e le relazioni parasociali che ne conseguono. Sto cercando di fare un film di cui il pubblico faccia esplicitamente parte, un film che si interroghi su che cosa si prova mentre si guarda e si empatizza con un personaggio ma anche che renda esplicite le meccaniche di inganno e manipolazione del cinema. Le relazioni parasociali sono una cosa strana, un po’ triste e creepy – ma anche molto interessante: è assurdo come ogni tanto pensiamo di conoscere profondamente qualcuno senza averlo mai incontrato.

Cosa ne pensi della “festival run” di «Living Reality»? Qual è il tuo rapporto con i festival di cinema, dal momento che anche tu ne hai fondato uno?
Philip: Amo i film festival, penso che siano non solo dei posti fantastici dove mostrare il proprio lavoro ma soprattutto posti incredibili dove incontrare persone e creare un senso di comunità. Dopo Lago Film Fest posso dire di conoscere molte più persone in Europa, con cui ancora mantengo i rapporti. Io e alcuni miei amici gestiamo questo festival sperimentale a Ithaca, New York[1] – dove mi sono laureato in cinema: a me piace moltissimo l’idea di poter portare così tanti artisti e registi sperimentali in una città in cui forse di sperimentale non c’è molto, ma in cui ci sono molti studenti di cinema che hanno la possibilità di conoscere questi filmmaker e quindi creare una comunità. La possibilità di fare questo è molto speciale e importante per me: se postassi direttamente il mio film online potrei finire ad avere magari più visualizzazioni del numero delle persone che in totale vedono il mio film dopo un’intera stagione passata nei festival, ma per me non ne vale la pena dal momento che non è un vero modo di costruire un rapporto con gli altri. in fondo il motivo per cui facciamo arte è creare una connessione con gli altri, buttare qualcosa fuori e avere qualcuno che ci risponde. In più, come dicevo prima, essendo dipendente dal cinema, i festival sono gli unici posti dove mi sento accettato se voglio guardare cinque film in un giorno solo – è la sensazione migliore del mondo, vivere per un po’ in una realtà in cui fare questo è normale.