approfondimento a cura di virginia maciel da rocha
Caro Paolo, dimmi, a che cosa è servito, a posteriori, ricondividere centinaia e centinaia di storie su Instagram raffiguranti giovani coppie che si baciano al termine della proiezione in sala del tuo ultimo film, della tua ultima fatica «Parthenope»?
Vado a vedere Parthenope perchè so bene che, una volta finito il periodo di distribuzione in sala, non riuscirò mai a recuperarlo da altre parti. Quando dico «non riuscirò mai» intendo dire che non c’è santo sceso in Terra che mi costringa a guardare un film di Paolo Sorrentino, dalla durata di oltre due ore, sulla televisione di casa mia o, peggio, sullo schermo del mio portatile. Tutti i miei amici, tutte le mie conoscenze, giustamente, lo hanno già visto e finisco per ritrovarmi sola in sala, circondata da un pubblico che, oltre ogni ragionevole dubbio, superava la media dei cinquantacinque anni. Non sto neanche a dirlo, ma si sono messi a cantare in coro Cocciante o chi per lui, quando la canzone è partita. Il nostro Paolone nazionale ci regala una storia vista e rivista, all’incirca quattrocentocinquanta volte nella storia del cinema e so bene che i miei piccoli lettori diranno che non conta la storia, ma il modo in cui viene raccontata e beh, che dire, il problema è proprio quello.
Il film si apre con una serie di scenette che dovrebbero farci ridere perchè, si sa, Napoli è popolata da persone veramente troppo simpatiche (haha, la mozzarella della Mano di Dio). Questo incipit scherzoso e buffo dove qualcuno veramente, osservando lo skyline di Napoli da (relativamente) lontano, esclama «Uh, la chiameremo Parthenope!» e nessuno neanche si pone due domande e si dà tre risposte, prova a mettersi sulla scia di tutti quei fastidiosissimi intermezzi che costellavano il precedente lungometraggio di Sorrentino. Erano stucchevoli ne È stata la mano di Dio, sono stucchevoli in Parthenope. Protagonista, ora lo ridico, è Parthenope, interpretata da Celeste dalla Porta, una giovane ragazza la cui unica personalità consiste nell’essere bellissima, nell’ammaliare tutta Napoli, non so se si è capito, ma il film è ambientato a Napoli e Napoli è Parthenope e Parthenope è Napoli e perdio, leviamola quella H nel mezzo che non stiamo a traslitterare dal greco antico ma tant’è.
Insomma, la nostra protagonista è bellissima tanto da far innamorare non solo tutta la città, ma addirittura il suo stesso fratello – ma senza tutto lo spessore psicologico che avevamo visto in The Dreamers (2003) o nei romanzi di Jean Cocteau, o in veramente qualsiasi altro prodotto artistico. È intelligente e questo lo capiamo bene perchè prende trenta e lode agli esami universitari! Troppo brava, ma poi, si sa, l’intelligenza si misura con i successi accademici. Parthenope legge libri in inglese, non sappiamo bene con quale accento parli, ora ha una cadenza partenopea, ora parla come se fosse nata e cresciuta nell’hinterland milanese. Ogni tanto ci infila un po’ di inglese, del resto deve comunicare con John Cheever (Gary Oldman), il famosissimo scrittore maledetto che trascorre le proprie vacanze in solitudine sull’isola di Capri. Parthenope si riferisce a lui chiamandolo «l’americano» mentre questo parla con l’accento più british che sentirete quest’anno provenire da uno schermo cinematografico – troppo intelligente, la nostra Parthenope. La nostra grande protagonista, quando non è stesa in pose completamente innaturali su triclini che farebbero invidia alla scenografia del Satyricon (1969) di Fellini, da tanto barocchi, pacchiani e fuori contesto che sono, si diletta in leggere racconti di questo «ubriaco, depresso, triste scrittore». Vabbè, un po’ quando come avevo quattordici anni e me la volevo sentire leggendo Charles Bukowski sull’autobus che mi portava al liceo. Ok, carissima.
Ammetto che con grande difficoltà il cinema di Sorrentino è riuscito a comunicare direttamente a me, nel corso degli anni, ma con questo film è riuscito a fare un salto di qualità e, in certi momenti, è arrivato pure a offendermi. Gli riconosco grandi cose e La Grande Bellezza (2013) è comunque uno dei miei film del cuore, ma quando si mette a parlare della vita e dell’esistenza dei giovani, mon dieux, lasciatemi stare. Un fastidioso senso di nervosismo mi ha accompagnata per praticamente tutta la visione del lungometraggio – e sottolineo lungo, dato che supera le due ore di durata. Mi sono sentita offesa in quanto donna? In quanto giovane? In che modo è riuscito, questo film, a darmi così tanta noia? Forse perchè se il suo intento originario – ma su questo dubito fortemente – era di rappresentare l’oggettificazione femminile, alla fine, finisce per fare il suo esatto opposto? Gesù mio, il tesoro di San Gennaro? Are you for real? Che orrore. Solo qualche momento dopo essere uscita dalla sala mi resa conto che, parte del mio fastidio, era da ricercarsi nella violenza di quei primi piani sulla protagonista. Giustificare uno sguardo del genere, fare in modo che anche lo spettatore lo assuma su di sé; non volevo guardare così nel dettaglio, mi sono sentita quasi in colpa. Ho assistito a una delle presentazioni del film circa un mese fa, quando erano state organizzate le famose anteprime di mezzanotte. Sorrentino ha ripetuto per almeno un quarto d’ora quanto fosse interessato alla giovinezza, alla bellezza, alla spensieratezza, a tutte quelle parole che finiscono per -ezza ma di cui abbiamo bisogno di una spiegazione per non fraintendere. Sai, Paolo, non credo tu sia riuscito a rendere queste idee.
Il personaggio di Parthenope è, sostanzialmente, piatto, dall’inizio alla fine del film; l’unico personaggio che poteva avere uno sviluppo interessante, Raimondo (Daniele Rienzo), fratello maggiore della protagonista, viene malamente eliminato a metà film. Chissà perchè soffiava sulle cose e sulle persone – non me lo sono chiesto troppo e non sono riuscita a trovare una risposta, ma che bel gesto, il suo. Sul resto degli astanti che attraversano la vita della protagonista, non è che ci sia molto da dire, se non che (rendiamoci conto) l’unico personaggio che un minimo svolta questo film, per la durata di tre scene o poco più, è una Luisa Ranieri in formissima che interpreta la star cinematografica Gloria Cool, sostanzialmente una copia sbiadita e caricaturale di Sophia Loren. Le sue battute e la sua presenza scenica mi hanno davvero strappato una risata, cosa che non sono riuscite a fare tutte le sequenze precedenti adibite a questo scopo. Altro personaggio di cui poco ci spieghiamo la provenienza (o il senso, in generale) è un certo Roberto Criscuolo, interpretato da Marlon Joubert (sì, ritornano sempre): magnate, forse mafioso, forse no, intrallazzato in matrimoni di convenienza che mettono in scena la prima notte d’amore tra due giovani sposi e costringono la famiglia (e, a quanto pare, gente casuale che si trova lì) a guardare. No, Paolo, non c’è bisogno di citare o replicare in brutta copia Salò: Pasolini basta e avanza, lasciamolo in pace.
Mi duole dire che un punto positivo, questo film, ce l’ha. Al tempo stesso, sono contenta di sottolineare che questa nota positiva non dipende da Sorrentino: è la musica. Non ho idea se nelle discoteche di Capri si ballassero canzoni del Trio Ternura, gruppo musicale brasiliano, ma l’appena uscito Gladiatore II ci insegna che è proibito ricercare la verità storica al cinema – e io mi adeguo. Certo, se poi rifletto sul fatto che una canzone brasiliana degli anni Settanta è diventata virale grazie a Paolo Sorrentino e non all’ultimo lungometraggio di Walter Salles, forse un pochino di nervoso mi ritorna. Mentre assistevo a questa lunga agonia, da una parte, mi sono sentita in un certo senso fortunata. Ci pensiamo a quando, fra dieci, quindici anni, spero prima, questo film verrà preso in considerazione come case study sul male gaze in ambito cinematografico? No, perchè uno pensa che solo i film degli anni Quaranta rispondano a questa etichetta, dove le donne sono letteralmente rappresentate come oggetti e mai come parte attiva di qualcosa. Alla fine, mi ritrovo quasi a ringraziare Paolo Sorrentino, per aver realizzato un film che è così facile da considerare come esempio in negativo sotto così tanti punti di vista sociali, di genere. Who’s the anthropologist now, eh, Paolo?