approfondimento a cura di pavel belli micati
Cosa succede quando alle vittime viene negata la possibilità di raccontare la loro verità? Disclaimer in inglese – o «esonero da responsabilità» nella sua traduzione italiana – è un prestito dal vocabolario giuridico con cui spesso si precisa l’estensione di un diritto – ma il più delle volte si ricorda l’esonero da un obbligo – di una o più parti coinvolte. Il disclaimer, in epoca di ritrattazioni preilluministiche e individuazioni postromantiche, è dappertutto ormai. Si trova nei pacchetti di sigarette o nei termini di un contratto di lavoro, nelle condizioni di un servizio o nella stipula di un accordo, all’ingresso di un locale o sul foglietto illustrativo di un medicinale. Il disclaimer giunge persino ai prodotti di finzione, dai romanzi alle trasposizioni cinematografiche, dove trova la sua forma compiuta nella classica premessa incipitaria «Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale». Il fatto stesso che io sia qui a dirvi che questa recensione non è priva di spoiler è di per sé un disclaimer.
Disclaimer presta il nome anche all’ultima opera di Alfonso Cuarón, il thriller un po’ victorian un po’ bobo suddiviso in 7 episodi e trasmesso su Apple TV+ ogni venerdì dall’ottobre al novembre passati. La storia, che è tratta dall’omonimo romanzo di Renée Knight, è stata presentata in anteprima a Venezia 2024. Le visioni fresche della stampa lo hanno definito un incrocio a metà tra Diario di uno scandalo e Tár, complice anche la presenza stessa di Cate Blanchett nei film rispettivi. Disclaimer promette sin dall’inizio un dramma dai tratti psicologici e i toni noir, con una narrazione multiprospettica e un’ambientazione nella contemporaneità del paradigma giornalistico. «Vi invito a concentrarvi su narrazione e stile, la loro forza può portarci vicino alla verità, ma entrambi possono anche essere un’arma con un grande potenziale manipolatorio». È così che viene introdotta Catherine Ravenscroft, giornalista di successo insignita del premio alla carriera per il contributo ventennale alla ricerca di verità – in un’epoca di postverità. E così, nemmeno il tempo di ricevere l’onorificenza, che la sua immagine è macchiata dal disonore di un segreto. Il passato della donna torna a galla, ma l’esca che lo porta in superficie è un romanzo finzionale.
«Parla di me. Credo che vogliono punirmi», Catherine si giustifica col marito Robert che la trova, al mattino, in cucina col libro in fiamme che ha letto la notte precedente. Il romanzo ha fatto riemergere l’odio verso se stessa – sostiene la donna. Il manoscritto viene poi recapitato a Nicholas, il figlio venticinquenne dei Ravenscroft, prima di finire in tutte le librerie di Londra, e cominciare a pesare sulla reputazione della donna. Il perfetto sconosciuto, questo il titolo, rivela un antefatto che solo Catherine credeva di conoscere fino ad allora: un incontro intimo che la giornalista, in una vacanza fatta vent’anni prima in Italia, aveva avuto con un giovane suo connazionale. Il ragazzo, Jonathan Brigstocke, è deceduto in quella stessa vacanza salvando la vita al figlio della donna, il piccolo Nicholas. Dietro l’anonimo firmatario del romanzo c’è Stephen Brigstocke, il padre del giovane che nel frattempo ha seppellito la consorte, Nancy. La donna, a lungo ammalata e segnata irreparabilmente dalla perdita del figlio anni prima, ha lasciato nascosto un manoscritto ispirato dalle foto del rullino recuperato tra i beni personali quando, al tempo, la coppia era volata in Italia per riportarlo a casa.
Una volta aver letto il manoscritto che la moglie gli ha tenuto segreto, Stephen – che ha messo mano alle foto inedite e riconosciuto l’identità della donna in situazioni compromettenti – deduce il suo coinvolgimento nella morte del figlio e decide di vendicare sia Jonathan che Nancy, proprio a partire dalla pubblicazione del romanzo. La premessa di Disclaimer parte da qui: attraverso plurime voci narranti, lunghissimi piani sequenza, e punti di vista in via di moltiplicazione, descrive la cancellazione progressiva di Catherine Ravenscroft, sia nelle sue relazioni personali che nella pubblica immagine. «Una scaltra manipolatrice che ha colto l’occasione per farla franca», «Una puttana egoista», i pareri sul personaggio del romanzo iniziano a confondersi con le opinioni sulla sua persona, e la distruzione della donna, più che dolorosa in sé, lo diventa per il pubblico che vi assiste. Al di là di colpe vere o presunte, c’è da sussultare per l’inverosimiglianza dei dialoghi, l’inaffidabilità delle ipostasi non convince, la laccatura degli scenari fa male agli occhi, così come la cinematografia pastosa produce una sensazione di sgradevolezza sull’intero ambiente; l’irrilevanza di molti inserti narrativi poi, invece di puntare all’identificazione, strania di continuo gli spettatori con un effetto di incredulità assillante.
Disclaimer non è una bella esperienza, è piuttosto uno spettacolo penoso, un melodramma fasullo impostato su un’azione ingessata la cui resa è stupidamente demagogica. Non lo redime nemmeno il cast, che vanta nomi tra cui Sacha Baron Cohen e Kevin Kline: tutti falliscono nel dare interpretazioni irreali di personaggi alquanto bidimensionali. I loro rapporti non sono approfonditi, la loro psicologia non è descritta e, tra continui tuffi nel passato, moltiplicazioni prospettiche e sottrazioni temporali dal presente narrato, questa antipatica divagazione audiovisiva non sembra comunicare niente, né volerlo fare. Ma questo è proprio il punto di Disclaimer: su un copione ingiustificatamente lungo – di sette episodi – la narrazione che accompagna i primi sei punta all’incredulità del pubblico, gioca con la loro ermeneutica ricettiva. Raccontando epidittiche scolastiche sulla colpa e giustificando le ragioni che muovono il desiderio di vendetta, Cuarón restituisce personificazioni del dolore e della perdita a cui tutto è permesso in virtù del loro stesso sentire. L’inclemenza poi, che tutti quanti riservano nei confronti di una donna a cui viene ripetutamente negata la difesa, diventa nel pubblico una scelta: possiamo scegliere di credere alle parole degli altri, o aspettare che Catherine rompa il suo silenzio.
Due voci narranti raccontano Disclaimer: quella onnisciente che accompagna la vita dei Ravenscroft, e quella di Stephen Brigstocke, che prepara la fredda e spietata vendetta. Sta al pubblico scegliere a quale narrazione credere, da quale parte stare – anche se Cuarón stesso non lesina nel mettere Catherine sotto una cattiva luce, e la gente attorno a lei non esita a credergli. Questa sorta di deresponsabilizzazione è ammantata da impulsi moralistici e portata avanti da una forma di indignazione stucchevolmente perbenista. Il disclaimer diventa lo strumento col quale assistere alla rovina totale e incondizionata della donna. È il disclaimer che accompagna al contempo l’odio che si costruisce attorno a Catherine – progressivamente dipinta come un mostro orribile – e pure la nostra denegazione romanzesca in qualità di spettatori che, se di certo non empatizziamo con i personaggi, allo stesso modo non possiamo credere alla protagonista silenziata. Alla fine però, questo esonero da responsabilità viene smentito: la verità ultima è che l’incontro con Jonathan, descritto dalle stesse foto che la madre aveva recuperato e dalle quali aveva ispirato il romanzo, non è stato consensuale. Catherine è stata prima minacciata dal ragazzo, poi costretta a posare per lui e infine violentata. Ma nessuno poteva saperlo, proprio perché nessuno ha voluto ascoltare le parole della vittima.
La confessione della protagonista, a cui è negata la parola lungo tutto il corso d’opera, non solo smentisce il teatrino montato dalla riscrittura finzionale che viene data per vera da tutti: la stessa verità, prima nascosta, poi negata e infine rivelata, solleva la donna dall’odio che il marito Robert le ha riservato, e spegne in Stephen Brigstocke, ora consapevole del crimine di suo figlio, ogni desiderio di vendetta. Attenzione ai racconti, ma soprattutto alle fonti che li autorizzano, conclude la parabola di Cuarón: la perdita, in Disclaimer, produce un dolore che diventa rabbia, e questa autorizza una sete di vendetta che può essere soddisfatta solo attraverso la distruzione completa di una persona. Catherine Ravenscroft è, per i coniugi Brigstocke, la perfetta sconosciuta da sacrificare. Ma è troppo tardi per tornare indietro: il mondo l’ha già cancellata, Robert ha preferito credere alla storia che l’ha dipinta come moglie infedele e Nicholas per poco non è morto di overdose. E pure le scuse finali non servono a nulla: «Sembri quasi sollevato dal fatto che io sia stata violentata». Il silenzio di una vittima viene punito, nessuno comprende la sua scelta di non vendicarsi, proprio perché tutti, a quello nascosto, preferiscono il dolore manifesto.
«La tua incauta convinzione di avere diritto a non parlare ti è valsa la condanna», dice la voce onnisciente a Catherine che viene allontanata prima da casa, poi dal lavoro, per tornare infine a vivere dalla madre affetta da Alzheimer; il pubblico di Disclaimer, che ha visto ogni declinazione dell’odio riversarsi su di lei soltanto – in tutte le rivisitazioni, revisioni e riscritture possibili e improbabili di un evento traumatico tenuto nascosto per proteggere gli altri e rivelato a forza per proteggere se stessa – nell’amara agnizione che chiude il finale, finisce per trovarsi davanti a due esiti, dalle ricezioni emotive diametralmente opposte: nel caso abbia creduto alle illazioni altrui, può solo che provare vergogna per non aver aspettato che la donna parlasse; nel caso in cui non avesse ceduto alle congetture e ha invece aspettato la sua confessione, è consolato nell’apprendere che niente di ciò che è stato detto, raccontato e inscenato sul suo conto è veritiero. Ma in entrambi i casi, non possiamo perdonare l’esperienza di questa farsa, uno spettacolo penoso che gioca con l’incredulità dello spettatore e deride la tendenza a credere alla narrazione, tanto quanto più dolore essa racconta, tanto quanto più commozione essa produce.