di cesare
Che il regista giapponese Hirokazu Kore-eda, classe 1962, sia uno dei punti di riferimento per il cinema contemporaneo giapponese ed internazionale è ormai piuttosto chiaro. Grazie alle opere cinematografiche Nessuno lo sa (2004) oppure Un affare di famiglia (2018) vincitore tra l’altro della Palma d’oro al Festival di Cannes, Kore-eda è riuscito a dimostrare la sua straordinaria capacità di regista umanista: raccontare la delicatezza e l’innocenza dell’essere umano attraverso gli occhi e l’esperienza dei bambini, gli unici, forse, in grado di resistere all’ipocrisia degli adulti.
Il suo ultimo film, L’innocenza (2023), miglior sceneggiatura al festival di Cannes nel 2023, appare più che mai concentrato proprio sui temi cari al regista nipponico nonostante la sceneggiatura porti la firma di Yūji Sakamoto. Il film racconta la storia di Minato, interpretato dal giovane attore Soya Kurosawa (molto espressionista e al tempo stesso delicato), di sua madre Saori, e della loro vita quotidiana interrotta, un giorno, dal comportamento anomalo del bambino al ritorno dalla scuola. Il tentativo di ricostruire gli eventi e le dinamiche che hanno portato il piccolo Minato a comportarsi in modo diverso dal solito sarà l’occasione per lo spettatore di addentrarsi in un (pericoloso, ma necessario) labirinto perfettamente architettato da Kore-eda. L’espediente è ormai ben noto e riconosciuto a livello mondiale e il capolavoro di Kurosawa, Rashomon (1950), ancora oggi riesce a dirci molto sulla molteplicità dei punti di vista e sul mezzo cinematografico capace di mentire, dato che la visione stessa ha una natura ambigua. Il viaggio intrapreso dalla madre Saori è lo stesso dello spettatore che cercherà per tutta la durata del film di rispondere alla domanda principale su chi sia o chi siano i veri mostri nella storia. Forse l’insegnante accusato di maltrattamenti nei confronti di Minato e del suo amico Yori, che si dimostra reticente e spocchioso durante i colloqui con la madre di Minato; oppure è la stessa dirigente della scuola a nascondere un qualcosa di “mostruoso”.
A emergere da questi continui incontri/scontri tra gli adulti sono i due bambini Minato e Yori. La loro amicizia crescerà sempre di più e la loro vicinanza sarà l’occasione di fuggire da un mondo che non riesce ad accettarli. Il finale, impreziosito dalle straordinarie – e purtroppo ultime – musiche composte dal grande Ryuichi Sakamoto, rende grazia all’alba di un nuovo giorno in una nuova terra, non morti e rinati come l’apocalisse prevista dai piccoli, ma sicuramente cambiati e più consapevoli della loro pura innocenza.
L’intero film si dipana su continue riflessioni sia sul ruolo dei genitori – e più in generale degli adulti – nel confronto e rapporto con i bambini ma sopratutto sull’incolpevolezza di questi ultimi, tratto che emerge piano piano. Kore-eda riesce così in due ore precise a raccontare e toccare molteplici corde dell’esperienza umana: il mondo della scuola, il mondo degli adulti e il mondo dei bambini. Tutti quanti riescono, in qualche modo, a coesistere tra di loro, ma non senza notevoli difficoltà e ipocrisie. Sicuramente è proprio la critica nei confronti degli adulti, mai troppo feroce e nemmeno esagerata, a essere raccontata attraverso una ramificazione continua che riesce solamente a sciogliersi grazie a un deus ex machina, rappresentato in questo caso proprio dai bambini, gli unici in grado di dare uno sguardo, il più importante e risolutivo, su una società che può essere salvata solamente se è in grado di accettare e auto-accettarsi.